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Based on a work at rockedintorni.blogspot.com. .: 2009

giovedì 4 giugno 2009

Kylesa - Static Tensions (2009)



Anno: 2009

Etichetta: Prosthetic records

Tracklist:
1. Scapegoat
2. Insomnia For Months
3. Said And Done
4. Unknown Awareness
5. Running Red
6. Nature’s Predators
7. Almost Lost
8. Only One
9. Perception
10. To Walk Alone

Line up
* Corey Barhorst - Bass
* Phillip Cope - Guitar, Vocals
* Laura Pleasants - Guitar, Vocals
* Eric Hernandez - Drums
* Carl McGinley - Drums


Ci sono due termini adatti a focalizzare questo disco e quei due termini sono probabilmente "intreccio" e "groove". Il primo riguarda il grande lavoro compiuto dalla band, sia nella fase di scrittura che di registrazione, sugli strumenti e le parti vocali. I semi del rinnovamento erano già presenti in Time Will Fuse its worth, ma apparivano più sporchi e acerbi. Le componenti sludge e metal, infatti, erano sicuramente più notevoli ma si rischiava di offrire una prova che fosse eccessivamente potente a discapito della melodia e della ricerca. In Static Tensions invece c'è una costante ricerca delle nuove soluzioni, dovuta ad un intreccio assolutamente ineccepibile tra gli elementi che erano già un punto di forza nei predecessori ma che ora appaiono calibrati. Confermare la scelte delle due batterie potenzia una sezione ritmica che spazia tra la jam prog e l'efficacia delle parti più incalzanti metal, tra la violenza sludge ed il groove. I riff e le parti di chitarra sono maliziosamente studiate e duettano alla perfezione, così come le due voci - maschile e femminile - ora si contrastano ora si completano. Il secondo elemento caratterizzante è il groove, la ripetività di certi riff o di certe battute rafforza quella maggiore sperimentazione sonora esaltata dall'ottimo lavoro di Laura Pleasant. A tutto questo aggiungete una pulizia che non significa tradimento delle sonorità che li hanno portati fino a questo punto, ma semmai un labor limae che ha portato a levigare un sound in partenza mastodon-melviniano e figlio di sonorità hardcore-sludge. Lo schema delle canzoni non è mai statico, ma in tensione pur presentando dei elementi comuni e che fungono da filo conduttore: questa è la mia personale spiegazione del titolo. Static Tensions è il capolavoro della scuola Kylesa, per ora rimane il punto più alto in tutto, a partire dall'ottimo artwork di John Dyer Baizley (cantante e chitarrista dei concittadini Baroness). Disco capace di accontentare tutti, da chi apprezza i brani più coinvolgenti e veloci (Insomnia for months, scapegoat, almost lost) ad i brani più compassati e complessi (running red, to walk alone, unknown awareness), senza offrire un momento di calo creativo o di sosta. Un disco su cui scommettere in questo 2009.



Sito ufficiale

Kylesa - myspace



Sgabrioz

mercoledì 3 giugno 2009

Kylesa - Time Will Fuse Its Worth (2006)




Anno:
2006

Etichetta:
Prosthetic Records

Line-up:

Corey Barhorst - Bass, Vocals

Phillip Cope - Guitar, Vocals

Laura Pleasants - Guitar, Vocals

Jeff Porter - Drums

Carl McGinley - Drums


Tracklist:
1. Intro
2. What Becomes an End
3. Hollow Severer
4. Where the Horizon Unfolds
5. Between Silence and Sound
6. Intermission
7. Identity Defined
8. Ignor Anger
9. The Warning
10. Outro


Una lunga strada all interno della sofferenza..Ecco come si presenta l' ultima fatica degli statunitensi Kylesa, concitaddini di band come Baroness e Mastodon (nelle vicinanze).
Dopo un album d esordio tanto inaspettato quanto gradito quale To Walk A middle Course, il combo da alla luce un vero gioiellino che si staglia nella nuova scena "progressive". Non sperate però in tecnicismi cari a band come Dream Theater o Fates Warning, la materia è intesa in tutt'altro modo.Due batterie, due chitarre e tre voci...Un album dove l' hardcore, lo sludge, lo stoner e la psichedelia vanno a fondersi per dare vita a un maelstrom sonoro di rara bellezza e intensità...le derive psichedeliche, sono senza dubbio la novità di questo full length, inserite alla perfezione in pezzi come Where The Horizon Unfolds e Between Silence And Sound. Il lavoro della band è ottimo, ogni membro incastra la sua parte alla perfezione, anche la signora Laura Pleasants, che non porta certo la gonnella (nonostante sia davvero ammaliante) non si tira indietro con riff e vocals squillanti.
Un vortice sonico che non lascia prigionieri, che graffia selvaggio come una fiera ferita.
Un muro sonoro massiccio e impossibile da scaflire, si senta il carattere intimidatorio dei riff di Ignoring Anger e The Warning. Un avvertimento appunto. Le vocals coinvolgenti di Hollow Sever, per la quale è stato girato pure un video, il suono dilatato e tribale dei due minuti di Intermission, o i riff che rallentano e pestano come fabbri in Identity Defined. La sperimentazione ha avuto inizio per la band e i nostri in futuro sapranno sicuramente forgiare un sound ancora migliore.Un suono fangoso e pulviscolare tipico di band come Eyehategod, Neurosis, Taint, primi Mastodon.
Da apprezzare in tutta la sua pachidermica portata, lasciandosi trainare dalle sfuriate che sanno ancora di crust e hardcore.
Intrappolati nella loro palude sonora.


Neuros.

martedì 2 giugno 2009

Baroness - Red Album (2007)


Anno: 2007 Etichetta: Relapse Tracklist: Rays on pinion The birthing Isak Wailing wintry wind Cockroack en fleur Wanderlust Aleph Teeth of cogwheel O’ appalachia Grad Hidden track line-up: John Baizley – chitarra e voce Brian Blickle – chitarra Summer Welch – basso Allen Blickle – batteria
La Georgia (negli Usa, non in Europa, nda) si stà lentamente trasformando in una fucina inesauribile di grandissimi combo, amanti delle sonorità pe(n)santi, il cosiddetto heavy me(n)tal, dando i natali prima agli stratosferici Mastodon, poi ai potenti kylesa, ed infine ai creatori del disco oggetto di questa review. Dopo due split più orientati verso uno sludge miscelato con un post-core, le cui radici affondavano nella tradizione già creata da band come Neurosis e Isis, il quartetto di Savannah torna con il suo primo full-lenght: un battesimo del fuoco dove si giocano tutto, trovandosi al bivio tra la gloria e la polvere, tra l’essere un fac-simile iperderivativo o divenire una potenziale realtà, capace di trasformare le premesse in solide fondamenta. Il red album è capace di soddisfare i diversi palati a cui si presenta, grazie alle diverse anime di cui è composto, come un caleidoscopio dalle numerose sfaccettature l’immagine non è mai quella che appare in maniera statica, ma cresce e si evolve ascolto dopo ascolto. La struttura melodica rispetta, nella maggior parte dei casi, un’impostazione di stampo prog, con lunghe dissertazioni sonore che compongono un mosaico le cui tessere, rette da un duetto di chitarre in sincro, rendono dinamico ogni singolo brano. L’atmosfera si sviluppa in maniera ora frenetica, ora riflessiva, ma ciò che sicuramente incuriosisce è il modo in cui la tecnica di ogni singolo componente è capace di elevare il brano a struttura compatta. I muri sonori si ergono su un unico riff portante, al quale si agganciano le singole idee sviluppate, in maniera parallela, da voce, chitarre e sezione ritmica. Merita sicuramente una menzione d’onore la batteria, che è capace di creare tappeti di ritmiche sincopate e di taglio jazzistico, intarsiare mantra sonori sfruttando le proprie conoscenze prog, metal e stoner-psych. E’ questa ricchezza di sonorità e stili che permette al disco di volteggiare, in un valzer irresponsabile, tra le diverse influenze, creando un pot-pourri che rende così difficile la classificazione e l’utilizzo di un’etichetta musicale univoca, che riesca a ingabbiare in un termine tutta l’anima- o meglio le anime - che vivono all’interno del progetto baroness. All’interno del disco trovano spazio anche episodi acustici e strumentali (“cockroac en fleur”), oppure brani più veloci e diretti (teeth of a coaghwheel, O’appalachia) sferzanti di frenetica rabbia e mordente. Dilungarsi sugli elementi che compongono ogni singola traccia sarebbe quantomeno prolisso e superfluo. Basti sapere che si tratta di un’uscita imprescindibile di questo 2007 appena conclusosi, che proietta i baroness in una posizione di tutto rispetto, meritato e guadagnato attraverso jam sofisticate e ben sviluppate, nel panorama mondiale della musica heavy n’ loud. Nel nuovo corso, inaugurato da gentaglia come Kyuss e Neurosis, sicuramente si trovano band capaci di aprire il becco senza risultare soporiferi o la classica minestra già riscaldata.

Sgabrioz

Crime In Choir - Trumpery Metier (2006)





Anno: 2006

Etichetta: GLS Records

Line up
Kenny Hopper: Rhodes piano
Jesse Reiner: Synthesizers
Jarrett Wrenn: Guitar
Tim Soete: Drums
Matt Waters: Saxophone
Jonathan Skaggs: Bass
Tim Green: Guitar

Tracklist:
  1. Women of Reduction
  2. Complete Upsmanship
  3. Land of Sherry Wine and Spanish Horses
  4. Grande Gallo
  5. High Thin Circus
  6. Measure of a Master
  7. Trumpery Metier
  8. The Hollow Crown
  9. Octopus in the Piano


C’erano una volta gli At the drive-in, amici amiconi che si dilettavano a far rock strepitoso e contaminato, prendendo spunto da quello che capitava, ma riuscendo a rimanere allo stesso tempo eclettici, potenti, straordinari e legati ad uno stile rock più “canonico”. Apparentemente tale frase potrebbe sembrare un’antitesi continua, un’unica contraddizione in termini…un cortocircuito logico, in parole povere. Ma vi sfido ad ascoltarveli, ma credo che tutti voi sappiate chi siano gli ATD-I…

Bene, dal gruppo, dopo il 2001, nacquero i The Mars Volta, gli Sparta ed i Crime in Choir: tre gruppi completamente differenti tra loro. Trumpery metier è il terzo disco dei CIC, ed è il primo pubblicato con la nuova etichetta, la Gold Standard Lab di proprietà di Omar Rodriguez Lopez, amico ed un tempo negli Atd-i insieme a Jarrett Wrenn e Kenny Hopper. Questo lavoro è qualcosa di fenomenale, come non si sentiva da qualche anno: rivelazione e uno dei possibili dischi dell’anno, insieme a Return to cookie mountain dei TV on the Radio: pur essendo un disco completamente strumentale, riesce a non stancare, a non annoiare perdendosi in fraseggi ampollosi e arzigogolati, confusi quanto le indicazioni stradali ottenute dal vecchio arteriosclerotico e sordo incontrato per strada la domenica pomeriggio. Non c’è il desiderio di sviluppare trame onanistiche, pure e semplici costruzioni in cui il fine è impressionare per la “tecnica”. No, qui l’obiettivo è meravigliare, emozionare, stupire, colpire, accattivare, distogliere l’attenzione sul mondo e rivolgerla alla musica, costringendo l’ascoltatore a rimanere a bocca aperta per ogni singolo passaggio, accordo, scambio di battute tra gli strumenti. Non sono bravo nelle classificazioni, perché nei CIC c’è tutto: la batteria che viaggia tra il prog malato dei King Crimson, i Gong ed i Rush ed il math rock dei don Caballero e gli Shura, le vibrazioni sassofonistiche del jazz-core e della fusion, la chitarra malata di Fripp, Hendrix, Hackett nel periodo più cazzuto dei Genesis. C’è indie, c’è psichedelica flkoydiana come se Barrett fosse il direttore artistico di questo gigantesco festival sotto forma di supporto ottico. Volete la sperimentazione elettronica di Mike Oldfield? Ce l’avete. Volete i trip dello space rock hawkwindiano? Ve lo diamo noi! Questo lavoro è una bomba al neutrone pronta ad asportarvi ogni frammento di cattivo gusto per la musica. Dopo aver sentito questo, la vista dei blink vi farà venire l’orticaria, l’indiegay sarà più venefico dell’antrace, inizierete a temere J-Lo e astanti come il mobile in stile rococò di Zio Giovanni Maria teme i tarli.
Non troverete una canzone brutta, tutti suonano perfettamente e senza mancare mai di fantasia.


Sgabrioz

CIC - Myspace


sabato 30 maggio 2009

Into My Plastic Bones - Words I Do Not Say (2006)




Anno: 2006

Ettichetta: autoprodotto

Tracklist:
01 Screwed Finger 5:23
02 A Seagull Stole My Vodka Lemon 2:53
03 Bleeding Beauty 4:48
04 Dichotomy 6:27
05 Oil On Canvas 12:20
Un carillon impazzito, che ripete lo stesso giro cacofonico ma da cui si intravede una certa attitudine alla melodia. Un vinile graffiato, in cui la puntina ricade sempre negli stessi solchi, ripetendo incessantemente una traccia sonora, mentre echi lontani a tratti spaziali, a tratti psichedelici, irrompono in una marasma di sperimentale destrutturazione del suono. Parrebbe un disco di noise, invece è "Oil on canvas", brano di 12 minuti in cui rifuggono le varie sfaccettature del suono, nelle sue dimenzioni più sgraziate, ma che hanno appassionato i veri amanti del rock. La distorsione, il feedback, la ricerca degli effetti da Stockhausen fino a giungere ai lidi più icnandescenti del post-core e del noise. Tuttavia gli Into My Plastic Bones si presentano come brand crossover-sperimentale, sebbene le categorie sono relative e utili solo per avere delle coordinate iniziali. Il sound è complesso, sporco, ruvido e corposo, trio proveniente da Torino che nel 2008 muterà pelle e pubblicherà il suo secondo lavoro (entrambi in download gratuito sul loro sito). Dobbiamo dare un'interpretazione estesa del termine crossover, non limitandoci alla scuola tipica di Primus, Red Hot o Faith No More ma andando a cogliere il concetto da un punto di vista simbolico: lo scavalcare i genere verso la totale volontà di creare qualcosa ben oltre le barriere diarietiche. E qui c'è tutto, pur essendo un disco con pochi brani e strumentali. Impressionante la carica math che trasuda con forti citazioni di due band in particolare, Don Caballero e Irepress. Ma anche hardcore raffinato e bordate che si stagliano tra il progressive ed incedere crossoveristico e noise-jazz-core. Ci verrebbe automatico citare i classici esponenti del genere, ed è indubbio che la mentalità di questi ragazzi sia caratterizzata da un'instacabile desiderio di coniugare una spasmodica ricerca del sound godibile ed orecchiabile ( Bleeding beauty ne è l'esempio più palese), con la scelta di percorsi tortuosi e accattivanti, nella più pura follia sperimentale. Pluralismo sonoro, che alterna fasi più atmosferiche (vicine anche alle nuove correnti post-qualche cosa), ad altre più dure e massicce, che rimandano anche a Melvins, Tool ed Helmet. Un gran bell'ep, una band che potrebbe esplodere e diventar eun punto di riferimento. Naturalmente consiglio di sentirli e di procurarsi anche il nuovo episodio. Ne vedrete delle belle.

IMPB - Myspace

Download gratuito del disco.



Sgabrioz.

giovedì 28 maggio 2009

Antony And The Johnsons - The Crying Light (2009)




Anno: 2009

Etichetta:
Secretly Canadian

Tracklist:
1. "Her Eyes Are Underneath the Ground" (Antony & Nick Hegarty) – 4:24
2. "Epilepsy Is Dancing" – 2:42
3. "One Dove" (Antony & Barry Reynolds) – 5:34
4. "Kiss My Name" – 2:48
5. "The Crying Light" – 3:18
6. "Another World" – 4:00
7. "Daylight and the Sun" – 6:21
8. "Aeon" – 4:35
9. "Dust and Water" – 2:50
10. "Everglade" – 2:58

Sarebbe ridondante iniziare a riportare tutte le citazioni, di critica e "colleghi", riguardo al progetto Antony And The Johnsons ed il suo leader, Antony Hegarty. Le attestazioni di stima si susseguono con sempre maggiore frequenza, a partire dalla sua comparsa nel mondo della musica agli inizi del XXI secolo. Pupillo di Lou Reed e David Tibert (Current93), il ragazzone inglese classe '71 ormai è acclamato come portavoce ed icona della comunità gay, titolo di cui si presume vada fiero e ne sia soddisfatto. Ma ciò non dev'essere necessariamente sinonimo e sintomo di eccessi iconografici ed "estreme manifestazioni" che potrebbero sfociare nell'irriverenza, seppure esteticamente nobile e dignitosa, del burlesque e della parodia del gay a la Rocky Horror Picture Show. Lo stesso Boy George, a cui Antony ha dedicato una canzone in cui lo appella come sorella maggiore, ha sottolineato la grandezza di questo astro nascente del pop sofisticato ed elegante. Diamanda Galas, per fare un nome a caso, ha elogiato apertamente la voce immensa del trentenne proveniente dal Sussex. Credo che si sentisse veramente la mancanza di un disco di questa potenza lirica, da tempo non capitava di sentire una voce nuova che fosse allo stesso tempo così "classica" e tuttavia capace di cogliere sfumature adeguate ai tempi. Tutto in questo disco è praticamente perfetto, a partire dall'immagine rappresentata sulla cover frontale del disco. Un'istantanea che si divide tra una parvenza di sacralità del teatro giapponese, con un sentimento di decadenza barocca come a significare che il bello è destinato a cedere il passo all'inserobile scorrere del tempo. Ma nel disco c'è molto di più, in primis un approccio che travalica i generi e le situazioni, spingedosi a cantare della società umana. Cogliendola in trasversale ed attraversandola da capo a fondo, si interessa solo di piccoli momenti e aspetti che, seppure secondari, in realtà sono preziosi e significativi. Gli strumenti adottati sono il bel canto e degli arrangiamenti di eccellente spessore, che dipingono impressioni su tele candide. Le doti vocali spaziano dal tenorile al pop anni '80 alla costante ricerca di sfumature e virtuosismi canori, tra il rhtym n' blues di classe e l'eleganza della lirica classica. Senza perdere di vista la melodia ed il songwriting godibile e orecchiabile, The Crying Light offre momenti di travolgente passione ed emotività, pronta a toccarti dentro e travolgerti. Incantevole e seducente, vi troverete piacevolemente "turbati" dalla convinzione e forza con cui Antony canta e descrive momenti di pura teatralità. Uno dei possibili dischi del 2009, ma di cui si sentirà parlare. Sgabrioz

mercoledì 27 maggio 2009

Paolo Nutini - These Streets (2006)




Anno:
2006

Etichetta: Atlanctic Records

Line-up:
Donny Little - guitars/vocals
Paolo Nutini - vocals/guitars
Seamus Simon - drums
Michael McDaid - bass/keys
Dave Nelson - guitar/vocals/keys/percussion
Gavin Fitzjohn - huffy puffy blowey type things

Tracklist:
Jenny Don't Be Hasty
Last Request
Rewind
Million Faces
These Streeys
New Shoes
White Lies
Loving You
Autumn
Alloway Grove

Il Soul e il Blues, la musica nera. Musica che ha segnato intere generazione di colored americani, riuniti sotto gli stessi ideali di rivalsa sociale, e finalmente identificati attraverso un genere che unisce composizioni di rara espressività, non basate su complesse architetture sonore (come invece capita dall'altra parte dell'Oceano) ma sul semplice uso della voce, unico vero strumento di comunicazione. Il Soul non è solo anni '50, però: si diffonde rapidamente anche in Europa, ed è ancora oggi suonato in locali bui e fumosi, in Gran Bretagna e non solo. E' questo il caso del nostro Paolo Nutini, di chiare origini italiane ma nato in Scozia, da una famiglia non certo ricca e con qualche problema economico. Cresce con il Soul, ed impara presto a suonare la chitarra. Se aggiungiamo il fatto che il ragazzo ha anche una voce da non sottovalutare (è stato accostato a diversi nomi importanti della scena), di qui ad iniziare a scrivere qualche canzone propria, assolutamente senza pretese, il passo è breve. Il fatto è che Paolo è bravo, molto bravo. Non solo: è anche un bel ragazzo, un diciottenne che può fare breccia nel cuore delle teenagers di tutto il mondo; così, gli viene proposto il suo primo contratto discografico, che ovviamente accetta senza pensarci su due volte. Qualche piccolo ritocco da parte del produttore, e il gioco è fatto: ecco nascere These Streets. Da questo momento in poi, la sua vita si divide fra i palchi dei più importanti programmi “musicali” (se si può definire un programma musicale Top Of The Pops) mondiali. La prima cosa che uno potrebbe pensare è: il ragazzo ha davvero delle qualità, o è un altro successo costruito a tavolino? Io propenderei per la prima. Paolo Nutini ha innanzitutto un certo gusto musicale: le canzoni sono tutte molto semplici, ma ci sono delle trovate davvero notevoli (come, ad esempio, il contagioso ritmo groovy di New Shoes); ma, cosa importante, ha una voce stupenda, come non si sentiva da diverso tempo: maschia, strepitosamente sexy, espressiva. Chi lo ha visto live, ha sicuramente potuto apprezzarla in tutta la sua eccezionale bellezza. Il disco è più che piacevole. Certo, niente di nuovo sotto il sole, altrimenti avremmo gridato al miracolo. E' certo che due hits sicure come Jenny Don't Be Hasty e Last Request non possono che raggiungere il successo che meritano, e due lenti come Rewind e Autumn (questo in particolare molto struggente) non possono che entrare con prepotenza negli iPod di tutte le ragazzine europee (e forse anche americane). E' tutto azzeccato alla perfezione, tutto molto piacevole all'ascolto. E non mancano anche pezzi di notevole fattura: la title-track è probabilmente il picco dell'intero album, con la voce di Paolo supportata da una sola chitarra acustica, e New Shoes sembra un invito a ballare, con il suo ritmo estremamente contagioso. Una volta ascoltato tutto il disco è impossibile smettere di canticchiare. Siamo consapevoli di aver ascoltato dell'ottima musica, e di aver scoperto un nuovo talento. Da seguire.

Sito Ufficiale
Myspace
AlphaDj

lunedì 25 maggio 2009

Daylight Seven Times - Blood Coloured Sky (2006)



Anno: 2006

Etichetta: Circle Pit


Tracklist:
1. Hard Times

2. Revelation
3. Solaris

4. That Time Is Now

5. Lost

6. Gravity

7. Autumn '99

8. The Myth Of The Cave

9. Endless 10. Lucky


Dati i numerosi apprezzamenti ricevuti dal brano Solaris, presente sulla compilation di Rock&Dintorni, ho deciso di scrivere due righe riguardo a Blood Coloured Skies. Innanzitutto: se cercate il gruppo del secolo capace di rivoluzionare per sempre la musica rock con qualcosa di mai sentito state lontani da questi tre (ora quattro) ragazzacci. Se invece quando vi accingete all'ascolto di un qualsiasi album desiderate trovarvi sincerità, stile e freschezza che sprizza da ogni singola nota, questo è il full-lenght che stavate cercando!
I D7T non propongono nulla di mai sentito: partono da una matrice HC anni 90 (No Use For A Name, NOFX) riattualizzandola incorporando influenze emo (di quelli sani) e alternative rock (Juliana Theory, The Get Up Kids), tirando fuori un suono completamente personale e genuino.
Le capacità tecniche del gruppo sono ottime. Edoardo (voce, chitarra) ha una voce che non può lasciare indifferenti per via dell'espressività ed emotività che la caratterizza, allo stesso modo i suoi riff di chitarra. Sergio scava linee di basso che danno profondità al suono complessivo, ma il vero collante che rende tutto più omogeneo è la batteria di Dario (ex-Sottopressione :yeah: ): sempre varia e che riesce a rendere le canzoni energiche e spigliate. A tutto ciò aggiungiamo dei testi sempre di ottimo livello (cosa per niente scontata a livello italiano) e ci troviamo così di fronte ad un prodotto che non ha nulla da invidiare ai gruppi americani e che potrebbe tranquillamente stare nel catalogo della Vagrant o della Drive Thru.
La prima metà di Blood Coloured Skies si attesta su livelli davvero molto alti. La tripletta d'apertura lascia sbalorditi: Hard Times, Revelation (splendido l'intro di pianoforte) e la conosciuta Solaris sono canzoni di un livello decisamente superiore alla media. Si prosegue con Lost e That Time Is Now che rivelano l'anima più pop del gruppo passando per Gravity (dotata di un testo splendido:and all my fears just fade away as I look in your eyes and they're filled with hope), la traccia più legata all'hardcore, e alla semi-ballad Autumn '99. Ci troviamo poi di fronte a The Myth Of Th Cave dov'è la batteria di Dario a farla da padrone e subito dopo a Endless, brano con una grandissima coda strumentale. Finiamo in bellezza con Lucky che rialza il livello dell'opera a quello della prima parte.
Per concludere posso solo consigliarvi di ascoltare quest'album, perchè i Daylight Seven Times hanno classe da vendere e se avranno la fortuna di trovare gente dispostata a supportarli anche dall'altra parte dell'Oceano (dato che nell'Europa centrale e in Giappone sono già apprezzati) potrebbero davvero sfondare. Speriamo bene!

Sounds Like: The Get Up Kids, No Use For A Name, Juliana Theory


Alessandro Sacchi

domenica 24 maggio 2009

East Rodeo - Dear Violence (2009)






Anno: 2009


Etichetta: KapaRecords/Trovarobato/ Publishing:A Buzz Supreme


Line-up:
Nenad Sinkauz: guitar/vocal (Croatia)
Alfonso Santimone: keyboards, live electronics,noises (Italy)
Alen Sinkauz: bass,loops (Croatia)
Federico Scettri: drums (Italy)



Tracklist:
1. Soldato NATO
2. Transiraniana
3. Same Step

4. Clown
5. Medezhija

6. Ultima Volta che il Pesce Abbocca

7. Puž

. For My Mouse

Data di uscita italiana: 1 giugno 2009




Dopo un interessantissimo lavoro di esordio intitolato Kolo e i complimenti ricevuti, tra gli altri, da Marc Ribot e Greg Cohen, gli East Rodeo - gruppo multietnico formatosi a Padova nel 2002 - tornano con un nuovo lavoro intitolato Dear Violence che si propone tra le uscite più interessanti del mercato discografico italiano del 2009.
L'attuale formazione è composta dalle menti storiche del gruppo, i croati Alen (basso) e Nenad Sinkauz (voce e chitarra), e dai due italiani Alfonso Santimone (tastiere) e Federico Scettri (batteria), per la prima volta nella band.
Il titolo vagamente ossimorico e l'impatto raffigurato nel dipinto in copertina preannunciano i continui incontri/scontri tra silenzio e rumore, tra jazz e rock, tra psichedelia e ritmiche forsennate che si attuano nello spazio delle 8 tracce che compongono il disco, splendidamente mixato dall'onnipresente - quando si tratta di musica italiana di qualità - Giulio Ragno Favero (Zu, Il Teatro degli Orrori, One Dimensional Man, Putiferio).
Rispetto al precedente "Kolo", nel nuovo lavoro si percepisce una maggiore ricerca della tensione: il gruppo sembra giocare ad ipnotizzare l'ascoltatore con suoni insinuanti e persuasivi, per poi stordirlo con riff acidi ai limiti del noise. Un contrasto questo che è chiaramente esemplificato in "Soldato NATO" dove passaggi cupi che ricordano i Fantômas più "ambient" si alternano con esplosioni noise/math vagamente somiglianti a quelle dei siciliani Uzeda.
In "Transiraniana" la ritmica simil-math di Federico, il basso pulsante di Alen e i sibili volutamente ripetitivi della chitarra di Nenad creano una trama fitta ed ipnotizzante dal quale è impossibile districarsi rimanendo indifferenti.
Il grande lavoro di mixing effettuato da Giulio Favero è chiaramente riscontrabile in "Clown", pezzo da ascoltare al massimo volume proprio per rendersi conto della qualità sonora del disco; un aspetto, questo, da non trascurare.
In "Medezhija" ritmiche e testi di chiara matrice balcanica si fondono con un folle trash jazz di Zorniana memoria, mentre schizofrenia e sperimentazione elettronica la fanno da padrone nella sorprendente "Ultima volta che il pesce abbocca".
C'è spazio anche per sprazzi di momenti delicati e sognanti, come accade nella prima parte di "Puž" o nella conclusiva "For My Mouse", dove rispettivamente pare quasi di ascoltare la fusione trip hop dei Massive Attack e il post rock sognante dei Karate.
Badate bene che i diversi gruppi citati nel testo sono soltanto sensazioni di chi scrive e solo alcuni di questi sono anche ispirazioni reali e dichiarate dal gruppo. Quello che troverete in "Dear Violence" è in realtà un melting pot riuscito, coeso e soprattutto originale, frutto di una precisa identità sonora di un gruppo realmente unico, non solo in Italia.

http://www.eastrodeo.net/
http://www.myspace.com/eastrodeo


Mr. Bungle82.

sabato 23 maggio 2009

Vanessa Van Basten - La Stanza di Swedenborg (2006)




Anno: 2006

Etichetta: Eibon / Coldcurrent / Noisecult / Radiotarab

Line-up:
Morgan Bellini: guitars, synth, sampler, sequencer, mic, software, fx, harmonica, glockenspiel, percussions
Stefano Parodi: bass, synth

Tracklist:
1. La stanza di Swedenborg
2. Love
3. Dole
4. Giornada de Oro
5. Il faro
6. Floaters
7. Vanja
8. Good Morning Vanessa Van Basten

"Mi chiami pure se ha bisogno... o se ha paura". -"Cara ragazza, io non ho paura. Ho già assistito dei moribondi: la mandibola scende un pochino e poi è finita, il più delle volte non succede nient'altro". -"Tutti gli spiriti si trovano in una stanza intermedia, che noi chiamiamo 'la stanza di Swedenborg'. Ma lei non ci resterà a lungo, lei passerà dall'altra parte, verso la luce, ma deve cercare di restare là almeno qualche minuto. Qualcuno la chiamerà da dentro la luce, forse si sentirà afferrare, ma lei cerchi di resistere e di non muoversi da là. E ora mi risponda: un colpo vuol dire no, due non lo so e tre colpi vogliono dire sì". -"Non vada in direzione della luce. Non lasci la stanza di Swedenborg." Sono parole che citano The Kingdom di Von Trier, perfette per inoltrarsi nell’universo dei Vanessa Van Basten. Un monicker curioso, alla luce di quello dei francesi Overmars. Non è un nuovo amore verso il calcio olandese, ma una vena oscuro/parodistica che caratterizza queste band. I Vanessa Van Basten però sono italiani, e di questo, dobbiamo andarne orgogliosi, perché dopo l’ep omonimo, ci si aspettavano grandi cose dal duo genovese composto da Morgan Bellini e Stefano Parodi. E l’attesa non è stata vana, anzi, ripagata nel migliore dei modi, con uno dei debut più belli della musica italiana degli ultimi dieci anni, e non occorre fare distinzione di genere, poiché un album come La Stanza Di Swedenborg può piacere a una gamma eterogenea di ascoltari, poiché intriso di un alone quasi magico, caldo, sempre coinvolgente, nonostante le tinte cupe, poiché emerge l’amore per la musica, sentimento puro, che ha portato la band ad amalgamare suoni sì distanti l’uno con l’altro, ma riuscendo a scovare il filo rosso capace di unirli ed elevandoli a uno status omogeneo e superiore. Loro stessi amano definirsi heavy post-rock, e chi siamo noi per contraddire questa affermazione? La tiltetrack si apre magniloquente ed eterea dove chitarre pesanti figlie del genio di Justin Broadrik si stagliano all’orizzonte, prediligendo il versante Jesu dell’artista britannico, ma non disdegnando excursus potenti nel passato dei Godflesh. Il tutto ricamato a dovere da chitarre acustiche di sottofondo, che avanzano di pari passo a loop sintetici ed evocativi, come i solenni rintocchi della drum machine che accompagna il tutto. E il finale esplode in un calideoscopio di suoni che è un tutt’uno con i quaranta secondi acustici di Love, piccolo anfratto sicuro prima della cangiante Dole. E ora emerge davvero l’amore verso il nuovo corso dei Jesu, melodia e compatta potenza, senza mai alzare eccessivamente i toni, scandendo il tempo con riff taglienti e gioeilli elettronici, mentre soffocate voci si odono in lontana, e non è eresia sentire nel mood della song un parallelo con gli ultimi Katatonia, decadenti e bellissimi, ma rinnovati nel sound, menrte la luce si spegne sulla song, trainata da delicati momenti che sanno di Grails. E nei secondi finali viene ripreso il tema iniziale, chiudendo in bellezza questo maestoso quadro musicale. Un quadro musical lieve come la brezza che soffia sulla costa e porta via lentamente le nuvole, soffusi arpeggi di chitarra memori della musica folk aprono le danze per Giornata De Oro, e mai titolo fu più azzeccato, visto il carattere solare e rilassato del componimento, onesto nelle sue pase e nei suoi campionamenti, mentre i riff si inchinano rispettosi, e mostrano il loro lato più dolce, per non rovinare la pace creata, e allora si inseguono, con gli arpeggi acustici, giocano e si divertono, come bimbi su verdi colline. Mentre tappeti di keys annunciano che il sole tramonta, ed è ora di rincasare. Il Faro è ancora più silente, un piccolo spazio dove raccogliere i pensieri, alla sera, ammirando il mare, citando i Pink Floyd e i figli Labradford; keys che disegnano i bordi e chitarre acustiche che vanno a riempire in maniera delicata gli spazi, in maniera ordinata. Ricordano forse, quello della loro Genova. L’incedere evocativo di Floaters è evocativo e disteso, come se l’album avesse definitivamente cambiato veste, e la potenza dell’inizio fosse solo uno scherzo di classe, e sussurri lontani si mischiano a riff solari, che paiono volare sopra le nuvole, ancora più su fino a brillare della luce del sole, non ci sono parole per descrivere la bellezza di questa canzone, e anche alla fine, quando i ritmi si alzano, non si può evitare di fare gli occhi dolci, e lasciarsi trasportare lontano. Un viaggio verso l’ignoto che le distorsioni di Vanja impreziosiscono, ma alienano la song dal proprio essere, succhiandone il midollo, riducendo il tutto a distorsioni dal sapore drone, ma pregne sempre di melodia. E il grido finale di Good Morning, Vanessa Van Basten, è liberatorio e intimo nonostante la sua strabordante carica di potenza, ma è una potenza controllata, mediata da sentimenti puri e solari, e scherzosamente fa finta di lasciarci, in qualche minuto di silenzio, ma poi torna, rinnovata, acustica, sussurrata, commovente. Si chiude così questo capolavoro moderno della musica italiana e non, e non possiamo far altro che attendere il seguito. Entrate anche voi nella Stanza Di Swedenborg.



Neuros

venerdì 22 maggio 2009

Open Hand - You and Me (2005)




Anno:
2005


Etichetta: Trustkill Records

Tracklist:
  1. "Pure Concentrated Evil" (Isham) – 1:34
  2. "Her Song" (Isham) – 3:12
  3. "Tough Girl" (Isham, Helmericks)– 2:54
  4. "You and Me" (Isham) – 4:10
  5. "Tough Guy" (Isham) – 3:07
  6. "Jaded" (Isham) – 1:59
  7. "The Ambush" (Isham) – 2:17
  8. "Take No Action" (Isham, Helmericks) – 2:03
  9. "Newspeak" (Isham) – 2:15
  10. "Crooked Crown" (Isham, Epley) – 3:32
  11. "The Kaleidoscope" (Isham) – 3:08
  12. "Waiting for Katy" (Isham, Arnovich) – 2:43
  13. "Trench Warfare" (Isham) – 3:41
  14. "Hard Night" (Isham) – 5:02
  15. "Elevator" (Bonus Track) (Isham) – 3:45
Line-up:
  • Justin Isham - guitar, vocals, production, engineering, mixing
  • Paxton Pryor - drums
  • Michael Anastasi - bass guitar
  • Sean Woods - guitar




Questo è uno dei primi lavori degli Open Hand, del 2005, che in passato era stato preceduto da un lp e da un ep. il gruppo era partito con un crossover solido imbevuto di emo e qualche tocco di garage... ma con "You and me" queste caratteristiche si ritirano, mentre affiora una matta voglia di Queens of the stone age e Fu Manchu. Si capisce tutto alla prima canzone: "Pure concentrated evil", un missile di un minuto e mezzo, sopra una ritmica incalzante ecco acidi riff e una voce che si rifà moltissimo ad Homme... mentre emerge lo stile di Rated R nella morbida e psichedelica "Her Song". i due singoli "Tought Girl" e "Tought Boy" sono le manifestazioni più emo del gruppo. personalmente preferisco (e di gran lunga) lo stile di canzoni come la fantastica "You and me", avvolgente, morbida nonostante gli strumenti siano grezzi e ruvidi (e il merito è del cantante-chitarrista Justin Isham), per non parlare di "Jaded" o della bellissima "The Abush", vero e proprio crossover desertico, per capire questa definizione bisogna ascoltarsi la canzone comunque, si vede un bellissimo incrocio fra i Deftones e i Qotsa. Le migliori prove sull' emo sono la ballata "Trench Warfare" e la dinamica "Crooked Crown". Purtroppo emergono anche alcuni difetti: molte canzoni mi fermano troppo presto (vedi l' armonia e l' ipnosi di "Newspeak"), così come non convincono certe attitudini emo o addirittura garage (la voce femminile di pezzi dall' anima hardcore "Tought Girl" e "Take no Action", che stona abbastanza con quella di Isham, mentre si fa accettabile in "Whaiting for Kathy"). Non rimane che concentrarsi sui pezzi più psichedelici già citati, a cui aggiungo "the Kaleidoscope" e "Hard Night", per non parlare della bonus track "Elevator", una delle migliori "ballate" del disco.
Tirando le somme non si può che essere soddisfatti da questo lavoro... Un ottimo intreccio di stili condito da belle armonie psichedelichecche si alternano a pezzi dal gran ritmo. Magari i puristi hard rock storcerando un po' il naso verso alcune parti un po' ruffiane ed emo, ma considerando la giovane età della band bisogna per forza guardare con ottimismo al futuro.



Seba.

giovedì 21 maggio 2009

Oak's Mary - Mathilda (2009)


Anno: 2009

Etichetta: Fox Records

Tracklist:
01. Mathilda
02. Two Colours
03. I live no more
04. Señorita
05. Anymore
06. Clap my Hands
07. A perfect day
08. Saturday night
09. I never found my way
10. Sexy girl
11. Inside my head


Line-up:
Pietro Seghini - voce, chitarra, hammond e piano.
Riccardo Cavicchia - chitarra e voce.
Marco Sarracino - basso, voce e Rhodes Electric Piano.
Marco Barbieri - batteria e percussioni.



Capita spesso di trovare dei dischi che siano destinati ad essere la colonna sonora di una evenzienza particolare. Accade talvolta - se siamo fortunati - che quel determinato album lo si ascolti in quel preciso momento che ne svela tutte le carte. Come se l'atmosfera ed il clima fossero capace di amplificare il piacere che si ha ascoltando il disco. Il nuovo lavoro degli Oak's Mary rientra in uno di questi casi, fortunato me che l'ho iniziato ad ascoltare seriamente proprio in questa metà di maggio caldo ed estivo. In pratica è un disco ESTIVO, vacanziero e pronto per le scorribande lungo i vostri road trips di luglio inoltrato. Il quartetto piacentino pubblica sotto la Fox Recordsil terzo full lenght, seguito di quel "Car Wash" che ha strappato ottime recensione sulla stampa nazionale ed estera. Mathilda riesce non solo a confermare le promesse, ma ad andare ben oltre, trasformando quella che sarebbe potuta essere una interessantissima proposta in una solida realtà. Quest'ultima frase mi ricorda lo spot dell'Immobiliar dream, ma tant'è. Undici brani che si snodano tra lo stoner rock desertico di queens of the stone age (quelli dei primi tre lavori, per intenderci) e lo stile caliente e rock di Brant Bjiork (Jalamanta, Chè, BB and the Bros), tanto per stimolare l'appetito. Quello che veramente risalta è la capacità compositiva: non c'è un riempitivo, un susseguirsi di ottime tracce al tempo stesso godibili e personali. Tra il rock n'roll di certi Eagles Of Death Metal ed il Desert degli earthlings?, passando per la psichedelia ed un'ottima dose di fuzz e wha-wha. E' difficile riuscire a trovare un brano che svetti sugli altri: potremmo apprezzare maggiormente la psichedelia di "clap my hands" o lo spirito scanzonato e festaiolo della Hommiana "two colour". Catchy ma senza rinunciare al rock, Mathilda si presenta in tutta la sua freschezza anche e soprattutto grazie alle capacità dei singoli musicisti. Nessun tentativo di sboroneggiare con la tecnica, ma solo desiderio di divertirsi, divertire e saper bilanciare riffs e melodia, ottime linee di basso e una batteria (Marco Barbieri) contropallatissima. Notevole anche l'uso incrociato delle voci (dal timbro "californiano") di Pietro Seghini e Riccardo Cavicchia e gli interessanti innesti del piano rhodes del bassista Marco Sarracino. Ottima sorpresa, Italiana, di una scena che ormai è un punto fermo. Welcome Mathilda!

Links:
www.oaksmary.com
www.garbagedumpeagency.com
myspace.com/oaksmary

Sgabrioz

mercoledì 20 maggio 2009

The Rolling Stones - Beggars Banquet (1968)





Anno:
1968

Etichetta:
Decca Records - ABKCO


Line - up


Mick Jagger - vocals, backing vocals, harmonica
Keith Richards - acoustic and electric guitar, bass, vocals
Brian Jones - acoustic slide guitar, backing vocals, sitar, tamboura, mellotron, harmonica
Charlie Watts - drums, percussion
Bill Wyman - bass, backing vocals, percussion

Track list

Sympathy for the Devil
No Expectations
Dear Doctor
Parachute Woman
Jigsaw Puzzle
Street Fighting Man
Prodigal Son
Stray Cat Blues
Factory Girl
Salt of the Earth


Dopo il tentativo (direi riuscito, anche se non pienamente) di staccarsi dai groppi beat dell'epoca con l'album Aftermath e la voglia di maturità artistica con l'album Their Satanic Majesties Request (non un brutto album, ma la psichedelica non fa per i loro, soprattutto in un periodo in cui questo genere stava definitivamente prendendo il volo) i Rolling Stones sono alla ricerca di una collocazione. Decidono di farlo con Beggars Banquet, desiderosi di ritornare sguaiati, irriverenti e stradaioli come qualche anno prima. Ripartono dalla strada. Paladini degli abitanti della strada, delle persone comuni. Per sedare un po' le varie anime della band viene assunto, come produttore, Jimmy Miller, che aveva già lavorato con i Traffic (tra l'altro, un membro dei Traffic è presente in questo album) e Spancer Davis Group. Tutto ciò, andò a scapito di Brian Jones, già caduto in una forte depressione a causa della ricerca di un ruolo preciso nella band, il tutto accentuato da droghe e abusi vari. Infatti il suo contributo all'album sarà minimo, o per lo meno non a livello degli album precedenti (morirà solo 7 mesi dopo l'uscita dell'album).
Già dalla copertina si evince la dimensione e l'abito del disco: un bagno sporco, dismesso e con le mura imbrattate a più non posso. Infatti la copertina fu censurata e fino al 1983 la cover fu un foglio bianco dove sopra fu stampato, con caratteri eleganti, il nome del gruppo e dell'album. In basso a sinistra fu stampata la parola R.S.V.P. Abbreviazione del francese, Répondez s'il vous plait.
Qualche riga sopra parlavo del desiderio dei Rolling Stones di ritornare sulle strade. Ecco infatti Sympathy for the Devil, vero manifesto satanico al ritmo di samba, nonché uno dei singoli più noti del gruppo. Basso pulsante, Jagger a recitare nelle vesti del diavolo (Proprio come se ogni poliziotto sia un criminale ed ogni peccatore un santo/Come capo e coda/Chiamatemi solo Lucifero/Perchè ho bisogno di un limite /Quindi se mi incontrate /Abbiate un po di gentilezza /un po di compassione /ed un pizzico di tatto /Usate tutta la vostra diplomazia ben assimilata /o porterò la vostra anima alla perdizione). Finale in jam sessions, dove svettano i riff taglienti e sbilenchi di Richards (non da meno le secondi voci in un uh hu hu che ha fatto storia e il piano di Hopkins).
Se il diavolo arriva, le persone normali se ne vanno. Questo è il tema di No Expectations, altra chicca acustica, dove i 4 elementi (la chitarra acustica di Richard, quella slide di Jones, il piano di Hopkins e il basso di Wyaman) riescano ad evocare semplicemente, ma in maniera magistrale il senso dell'abbandono e della partenza.
Altra canzone, altro cambio d'anima. In Dear Doctor viene fuori la vena country (sound che verrà ripreso nel successivo Let It Bleed), canzone ironica che tratta di un tizio che va dal dottore perchè deve sposarsi ma poi scopre che la sua sposa è scappata con suo cugino e sentendosi così notevolmente sollevato.
In Parachute Woman ritorna il tema (già trattato in Aftermath) della donna vista ora come angelo ora come puttana. Qua siamo per la seconda versione, la donna paracadute, capace di arrestare e di raccogliere tutte le passioni e i desideri di un uomo. Blues stradaiolo più che mai, con un Richards preso a disegnare grezzi riff concentrici impreziositi dall'armonica di Jagger.
La successiva Jigsaw Puzzle è dominata dalle visioni di una persona intenda a rimettere insieme il suo puzzle appunto, composto da una varietà infinita (il gangster, il cantante, il vescovo, solo per citarne alcuni) di persone che nella vita privata sono l'esatto opposto della loro vita pubblica. Lo schema è musicale è sempre il solito. La leggera batteria di Watts, le due chitarre, una acustica, una elettrica, di Jones e Richard a duettare sopra il basso di Wyman con il piano di Hopkins libero di fluttuare tra tutti gli strumenti.
Il '68 è anno di rivolte e di agitazione giovanili e da qui nasce Street Fighting Man. L'iniziale riff di Richards (vero marchio di fabbrica della band, riprende nel mood quello di Jumpin Jack Flash, pezzo singolo uscito a maggio del '68 e poi tenuto fuori dal disco), la batteria “da marcia militare” di Watts, il redivivo Jones che suona il sitar e le parole di Jagger (Amico, sento dappertutto il rumore dei piedi che marciano e che caricano perche, amico, l'estate è arrivata ed è il momento giusto per combattere per le strade ma cosa può fare un povero ragazzo se non cantare per una rock n roll band Perche in una Londra che dorme non c'è spazio per un combattente di strada, no! ) ne fanno sicuramente una delle canzoni più massicce e impegnate dei Rolling Stones.
Prodigal Son è un adattamento di That's No Way To Get Along di Robert Wilkins, veloce canzone country folk. Con Stray Cat Blues ritorna il blues. Un blues sinuoso, che narra le sensazioni e le emozioni di un adescatore di minorenni. La canzone si snoda tra l'ennesimo straordinario giro di basso di Wyaman, con un un Richards impegnato in una serie di riff assordanti e stridenti. L'insaziabile Jagger sussurra nel microfono (Scommetto che tua madre non sa che mordi così. Scommetto che non ti ha mai vista graffiarmi la schiena). Un attimo di silenzio, le percussioni di Watts e poi la band si rimette in moto in un finale da leggenda, con tutti gli strumenti perfettamente allineati e fusi in un suono unico. Factory Girl è un altro pezzo country-folk sullo stile di Prodigal Son, ma il finale è tutto per Salt Of The Earth, dolce ballata (ancora su gli scudi il piano di Hopkins) che va a chiudere il cerchio, grazie al coro gospel sul finale, con la voglia di popolo, di strada, di persone umili che traspare da tutto il disco.
Brindiamo alle persone che lavorano duramente. Brindiamo al Sale della Terra. Brindiamo ai due miliardi di persone. Pensiamo agli umili.



Sciarpi.

lunedì 18 maggio 2009

Rolling Stones - Aftermath (1966)





Anno:
1966

Etichetta:
Decca Rec.



Line - up
Mick Jagger - Vocals, harmonica

Keith Richards - Guitar, vocals

Brian Jones - Guitars, marimba, bells, dulcimer, sitar, harpsichord, harmonica
Charlie Watts - Drums, percussion, marimba, bells

Bill Wyman - Bass, marimba, bells, piano, organ, harpsichord

Track list
1. Paint It, Black

2. Stupid Girl

3. Lady Jane

4. Under My Thumb
5. Doncha Bother Me
6. Think

7. Flight 505

8. High and Dry

9. It's Not Easy

10. I Am Waiting

11. Going Home


Aftermath non è l'album più bello dei Rolling Stones, ma sicuramente è uno tra i più fondamnetali, sotto diversi aspetti. Il primo, quello più evidente, è la scrittura dei pezzi tutti a firma Richards/Jagger, binomino che firmerà da li in poi tutte le altre canzoni degli Stones. Il secondo punto è l'evidente rottura (sia a livello musicale sia a livello tematico) che questo disco vuol dare con il recente passato degli Stones. In questo album i Rolling Stones cercano di togliersi l'etichetta di gruppo beat, di gruppo facente parte della British Invasion. Volevano togliersi di dosso i primi anni '60, di distaccarsi dai Beatles e di affondare ancora di più nel blues. Così come un anno prima per Beatles (vedi Rubber Soul, uscito nel 65), i Rolling Stones avevano l'intenzione di creare un disco che avesse canzone legate da un preciso filo conduttore e non solo di singoli e hit da classifica. Non solo sesso, droga e rock 'n' roll ma anche un blues sporco, capace di offondare le proprie le proprie radici sulla strada: blues dei neri cantanto da bianchi. Non per questo si può considerare senza essere accusati di blasfemia, i Rolling Stones come il più grande gruppo blues-rock bianco (o rythem&blues se preferite). E questo Aftermath è il primo mattone. Ultimo, ma non meno importate, è la ricerca e il seguente utilizzo di strumenti non propri del rock. Qua sta tutta l'abilità di Brian Jones (qualità che sarà croce e delizia per la sua persona). Jones introduce nel gruppo l'uso del sitar (ispirato da George Harrison dei Beatles che lo incomincio a suonare proprio in Rubber Soul), oltre a suonare il dulcimer, le marimbas, l'armonica, la chitarra e le tastiere. Nel complesso è un disco semplice, ricercato più nella strumentazione che nel suono, ma allo stesso diretto, spiazzante con un messaggio ben preciso dall'inizio alla fine: la vità è sporca, l'illusione è male, la disillusione è bene ed è l'unica arma che ci abbiamo per salvare la pelle. Significativa è anche la copertina dell'album. Fino ad ora gli Stones nell'album si presentavano tutti e 5 in posa: lo sono anche qua, ma l'immagine è sfuocata a testimonianza che alla fine tutto è destinato a svanire. L'album si apre con Paint It, Black, una delle canzoni più belle del disco. La batteria marziale di Watts, mitigata dal sitar di Jones fanno da tappeto al canto ora ribelle ora malinconico di Jegger. La controrivoluzione dei Rolling Stones nelle parole di Jagger (I look inside myself and see my heart is black I see my red door and it has been painted black/Maybe then I'll fade away and not have to face the facts ), dove la vita non è macchine e colori primaverili (con riferimento all'età dell'Oro di Elvis), ma è solo un buco nero da dover far proprio, idealmente rappresentato dall'ipnotico giro di basso di Wyman. Anche la successiva canzone, Stupid Girl, è un manifesto contro la donna, dedita solo ad occuparsi di cose futile nella vita (vedi la canzone precedente). Sempre sugli scudi il duo Watts/Wyman, ma i riff secchi di Richards e la voce da oca nel ritornello di Jegger tolgono il senso di malinconia che si respiravca in Paint It, Black. Lady Jane è invece una dolce ballata d'amore, dove stavolta come protagonista è il dulcimer suonato da Jones. Il suono si sporca con Under My Thumb, dove Jones suona l'ennesimo strumento diverso, la marimba. Un Jegger guascone, firma un altro pezzo dove la sottomissione della donna e la sua inferiorità sull'uomo (tema che sarà uno dei capi saldi del nascente hard rock) la fa da padrone (Under my thumb/ The Girl who once had me down/ Under my thumb/ The girl who once pushed me around/ It's down to me.."). Doncha Bother Me e Think si possono legare insieme. Il primo un pezzo blues con tanto di armonica (ancora Jones), il secondo un pezzo blues-rock dove i 5 elementi raggiungo si equilibrano a vicenda, un modo di suonare che sarà ripreso anche negli album successivi. Flight 505 si apre con il pianoforte, ed è forse l'unica canzone dall'animo beat, ma è disordinata, scomposta: un aereo senza controllo in caduta libera (No idea of my destination and feeling pretty bad) . Altra chicca è il country blues di High and Dry, che insieme alla vivace Its No Easy, portano alla splendida I'm Waiting. Jones riprende un a suonar il dulcimer che insieme al basso di Wynam richiamano il disincanto di inizio album, espresso dalle parole di Jegger (I am waiting, I am waiting/ Waiting for someone to come out of somewhere ). L'album si chiude con Going Home, spettacolare canzone in free form di 11 minuti. Immenso il lavoro di Wyman al basso, precise le chitarre di Richards e Jones, con un Jegger che cavalca tutti gli strumenti con una prestazione vocale da incorniciare. Le pietre incominciarono definitivamente a rotolare...

N.B: la versione di Aftermath tratta è quella uscita in Usa. Nella versione inglese ci sono 3 canzoni in più (la prima la splendita Mother's Little Helper) e l'ordine delle tracce è diverso ma non c'è Paint It, Black.



Sciarpi.

sabato 16 maggio 2009

The Beatles - Revolver (1966)




Anno: 1966

Etichetta: Parlophone

Tracklist:
1. Taxman
2. Eleanor Rigby
3. I'm only sleeping
4. Love you to
5. Here, there and everywhere
6. Yellow submarine
7. She said she said
8. Good day sunshine
9. And your bird can sing
10. For no one
11. Doctor Robert
12. I want to tell you
13. Got to get you into my life
14. Tomorrow never knows

Con Revolver i Beatles affinarono ancor più la loro qualità migliore: il saper coniugare un sound che potessere essere ascoltato, o meglio accettato da chiunque con pezzi che spesso avevano comunque risvolti artistici di rilievo. I Beatles rimanevano un gruppo principalmente pop, più che rock: in ogni canzone di Revolver possiamo ascoltare un gruppo educato, composto, che in fase di compisizone partiva principalmente da una solida base melodica, e non si lasciava prendere la mano dalle folli jam che tanti altri gruppi stavano sperimentando. Nel 1966 il formato su cui esprimersi era diventato per tutti l' album (e i Beatles erano stati fra i primi ad intuirlo l' anno prima), ed in territorio pop il guanto di sfida al loro primato era già stato lanciato dai Beach Boys (pardon, da Wilson), a cui il quartetto di Liverpool non rispose con un prodotto così complesso e raffinato come Pet Sounds, preferendo piuttosto affidarsi a pezzi più sobri, su cui veniva dosata con parsimonia ogni singola idea. Il tutto fu poi condito da una produzione sontuosa, che garantì un appeal straordinario. Revolver è spesso ricordato come un disco psichedelico: in realtà lo è in parte, e non poteva essere altrimenti, visto quanto si espandeva la moda psichedelica, la passione per strumenti esotici e insoliti. I Beatles risposero con tre pezzi che mischiavano il gusto pop melodico a queste nuove affascinanti soluzioni: l' assonata (è il caso di dirlo) "I'm Only Sleeping", condita da un assolo in backward guitar, la tambureggiante "Love You To", che trasuda suggestione indiani non solo dal sitar ma anche dalle ritmiche, e la conclusiva "Tomorrow Never Knows", uno dei pezzi migliori del lotto, l' episodio che rappresenta al meglio la psichedelia vista dai Beatles. A fornire la giusta dose di acidità erano sempre e comunque gli sforzi fatti in produzione. Il gruppo cercava comunque di rimanere su territori ben conosciuti, ed su questi territori i pezzi che spiccano di più sono "Eleanor Rigby", canzone riuscitissima a livello melodico, tutta basata su archi e intrecci vocali, e "She Said She Said", un rock and roll poco abrasivo nel sound ma che osa (e colpisce) con alcuni cambi di tempo repentini. Per il resto, si cerca in tutti i modi di ricamare sul materiale a dispozione, robusto ma non trascendentale: "Got to Get You Into My Life" ha un incedere frizzante, grazie alla sezione di fiati, mentre "Good Day Sunshine" è arrangiata con pianoforte e handclapping. Idee centellinate per arricchire ogni singolo pezzo e farlo risalatare dallo sfondo di "normalità" su cui altrimenti si staglierebbe. Quando manca l' orpello che faccia risaltare il pezzo, la canzone colpisce di meno, ed ecco perchè "And Your Bird Can Sing" e "Doctor Robert" suonano come i pezzi sostenuti di turno, "Here, There and Everywhere" e "For No One" come le ballate di turno. La fortuna della musica dei Beatles rimane così legata alla qualità ed originalità della produzione. "Yellow Submarine" è invece l' episodio dove, invece, manca completamente la qualità del sostrato melodico: una cantilena elementare, quasi infantile, dove le intromissioni dell' orchestra e il successivo l' ingresso di alcuni campionamenti più rumoristici non serve a risolevvare il pezzo dalla sua aura di mediocrità, rendendolo anzi ancor più stucchevole. Revolver vendette tantissimo e di conseguenza entrò nella leggenda. Considerando che questo era da sempre l' obbiettivo primario dei Beatles, il disco centrò perfettamente il bersaglio. E a noi rimangono fra le mani 35 minuti di buona musica, nient' altro.


Seba.

venerdì 15 maggio 2009

James "Jimi" Marshall Henxdrix: breve guida all' ascolto.

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Are You Experienced? (MCA, 1967)

Una gavetta come sessionman di Wilson Pickett, Tina Turner, King Curtis e Little Richard (il quale si lamentava addirittura che il giovane Jimi gli rubasse il palcoscenico) , viene messo sotto contratto da Chas Chandler (ex Animals) , che nel regno unito gli fa registrare il primo disco. Partendo dalla cover di “Ehy Joe “ ,così sorprendentemente valorizzata dal chitarrista, in una veste Blues di alto stile. Uno stile che padroneggia benissimo, aggiungendo tecnica e cuore ( Red House, I Don't Live Today) il vero capolavoro è la superba “ Third Stone From The Sun” , fondendo anche le ritmiche jazz, Jimi crea una gemma di inestimabile valore artistico che regge perfettament eil paragone con tutto ciò
che la psichedelia aveva proposto in quegli anni. Un disco fondamentale per il Rock proposto in tutte le salse, richiami alla black music ( Highway Chile ,sempre sottovalutata, ha un Pattern che farà storia in materia) , e a radici tribali ( la convulsa Manic Depression e la ruffiana Stone Free dimostrano che il batterista Mitch Mitchell non era esattamente un elemento scenografico) . Come se non bastasse, centra riff che faran parte dell' ABC dei chitarristi che verranno ( Purple Haze e Foxy Lady in primis) e soluzioni artistiche che ispireranno il songwriting di artisti di più correnti ( 51st Anniversary tra l'altro sembra aver ispirato gli esordi anche dei The Cure) , inconfondibile il suo tocco anche quando la sua chitarra ,oltre che a colpire, vuole accarezzare orbite di dolci ballad (The Wind Cries Mary)

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Axis: Bold as Love. (MCA, 1967)

Forse non aveva tutti i torti il giornalista (è Noel) che nell'intro “EXP” ,annuncia l'avvento di un alieno (con tanto di effetti chitarristici che ne simulino l'atterraggio ) in un divertente gag con il chitarrista, per il periodo è assoluta avangarde. Dopo pochi mesi dal primo disco, l'album della triade che solitamente vien sottovalutato , il più tributario verso la musica nera . Eppure i risultati sono stupefacenti anche in questo caso. L'apertura è affidata alla languida “ Up from the Skies” ,jazzata nella sensualità pacata degli esperimenti del trio; che accelerano in “ Spanish Castle Magic” , dal ritmo contagioso e incursioni spettacolari delle 6 corde. Perchè quando Jimi si lancia nei suoi virtuosismi sa essere realmente devastante (“Ain't No Telling” ) , e non è nemmeno detto che ciò debba essere fatto in un contesto puramente rock, note magiche si disegnano nell'aria di “ Little Wing” , creando probabilmente l'atmosfera del brano più fascinoso e catartico della raccolta. Non mancano di certo i riferimenti all' hard blues (“ If 6 Was 9” e la titletrack, a tratti Crooneristica ) e al rock and roll revival ( “ You Got Me Floatin'” con tanto di coretti retrò e il falsetto di “ Wait Until Tomorrow” a narrare le vicende di due sfortunati amanti) . C è sicuramente più spazio per il bassista (ex chitarrista) Noel Redding , autore di una splendida prova nella sezione ritmica di “Little Miss Lover” e vocalist di “She's So Fine” (che in fin dei conti è il brano meno coinvolgente del disco, anche perchè Jimi si sa, non apprezzava molto che qualcuno lo sostituisse dietro al microfono). L'episodio più atipico del disco resta “ Castles Made of Sand” , tra chitarre registrate al contrario e un cantato/parlato vicino a ciò che una decina d'anni dopo si chiamerà sotto il nome di Rap.



Electric Ladyland (prima stampa, MCA 1968)

!Have You Ever Been To Electric Ladyland? The magic carpet waits for you so don't you be late “ , ed è bene che prendiate a cuore questo invito del chitarrista,se non avete mai ascoltato quest album, fatelo. Per capire come un disco rock può rimanere al passo con gli anni anche passati 30 anni, e certo non solo per la perfetta produzione di questo disco ( la perfezione dell'artista arrivava al rifare una take anche 50 volte per ottenere il suono che voleva) , ma per la continua ricerca nella contaminazione del blues, materia difficile, e lui nemmeno sapeva leggere gli spartiti. Non si direbbe però dalla splendida “Voodoo Child” (con Jack Casady al basso e Steve Winwood all'organo Hammond, i problemi con Noel erano già insanabili a quanto pare ) o alla frenesia di “Gypsy Eyes” . Un disco che possiede un dinamismo moderno anche nella scelta dei singoli ( vennero scelte la melodica “ Burning of the Midnight Lamp” e la trascinante “ Crosstown Traffic” , dedicata all'altra faccia della medaglia dell'esser idolatrati) e il gusto di legare con un filo immaginario le composizioni (psichedelia solista in “ Rainy Day, Dream Away”, e la chitarra sembra continuare una pregrassione solistica in “ Still Raining, Still Dreaming” , uan vera pioggia di note che proseguono oltre il cantato). Sicuramente tra i tre album,è il meno immediato, pezzi come “1983” ( suite lisergica che intavola un viaggio da 13 minuti sulle ali di sei corde e poderose rullate che delicatamente sfuma via sulla coda strumentale “ Moon, Turn the Tides...Gently Gently Away” , ha l'effetto di un anima che sembra dondolare tra un orecchio e l'altro dell'ascoltatore) .
Il trio di chiusura è monumentale, l'interessante effettistica in “House Burning Down” da strada alla spettacolare “All Along the Watchtower”, probabilmente una delle migliori cover della storia della musica, ricca di phatos e gravida di una tensione liberata da un orgasmico assolo finale, riarrangiata in maniera opposta al minimalismo Dylaniano. “Voodoo Child (Slight Return)” termina in capolavoro di circa 5 minuti di creatività esplosiva , senza schemi. È lo schema.

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Band Of Gypsys (MCA, 1970)
Tra beghe legali e la mafia dei Black Panthers , venne registrato quest album dal vivo . Il trio Black del momento, Hendrix affiancato da due stelle (Buddy Miles alla batteria e Billy Cox al basso ) . Ci sarebbe da contare i furti che negli anni successivi ci son stati nei confronti della jam di questo live, a partire dai funky riff di “Who Knows”(intorno al settimo minuto raggiunge l'apice ) , “Machine Gun” lascia dilatare un affresco di Rock scuola Cream, Blues imbevuto di psichedelia che supera i dieci minuti, citazioni testuali e musicali (rullate come proiettili, 20 anni prima di One dei Metallica) alla guerra in Vietnam. Distorisioni, Cori, buio. Il silenzio e poi è solo Jimi.
“Changes” ha un andazzo quasi country rivestito di elettricità e il tipico tocco della musica nera, trascinante e asciutto, tagliato solo dal wah wah , cantato da Cox. Udendo le prime note di “Power To Love”, ci si accorge ancora una volta dell'importanza del musicista di questa biografia, il primo minuto gli vale il conio del detto tipico “un intro Hendrixiano” , ne segue una giostra di jam tra il funk/blues e il folk, la sintonia è presente ed è palpabile. Come il gradimento della platea che quasi non si accorge di quanto la band abbia provato poco prima di esibirsi a questi livelli.
“ Message Of Love” è proposta nella sua versione più ispirata, genialità assoluta negli inserti solistici, merito anche del drumming di Buddy Miles, un vero metronomo. Il pubblico accoglie con entusiasmo la scelta di collaborare in “We Gotta Live Together” , un funky stomp celebra il brano, anche in questo caso, riuscito. Cox&Miles ripresero il tema della serata ,pubblicando “Band of Gypsys :return” anni dopo, intanto il marziano era tornato nel suo pianeta, ma resta un gran bel disco,con nuovi arrangiamenti,consigliato a chi ha gradito il primo evento.

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First Rays Of The New Rising Sun (1997)

Ebbene si, gli inediti degni di nota di Hendrix terminano con due album, pubblicati postumi, che insieme avrebbero fatto parte del nuovo disco di Jim, la carica selvaggia lascia spazio ad una vena decisamente più intimistica, e ovviamente non sappiamo di quanti pezzi l'artista avrebbe successivamente corretto:

Disco 1:
Rainbow Bridge
Ascoltando “Pali Gap” , oltre che a rimanere a bocca aperta per la naturalezza nella quale viaggia funambolicamente tra le note, noterete quanto il disco si distacchi abbastanza dal lavoro precedente (ad esclusione di “Earth Blues” con il suo coro gospel e “Dolly Dagger” sulla scia di Axis).” Room Full Of Mirrors” lavora duro su percussioni e sovraincisioni di chitarre che duettano anche con la stesso timbro vocale. “Hey Baby (New Rising Sun)” resta una della ballad più pregevoli del repertorio, melodicamente efficace già dai primi ascolti. “ Izabella” sperimenta tonalità più solari, arrangiata sotto i canoni della black music moderna e le affilate soluzioni di un plettro davvero infuocato. Quest ultimo diventa poi la luce nell ombra di alcuni brani che sembrano incompiuti , ma nonostante ciò,degni di nota : “Little Drummer Boy-Silent Night” e “ Hear My Train A-Comin'” ( undici minuti son sicuramente troppi) e il proto punk di “Stepping Stone” . Star Spangled Banner vien proposta in una versione più curata ( e meno affascinante della celebre versione storica)

Disco 2
Cry Of Love
Il disco più vicino al Soul della discografia, lo dimostra la carica “Freedom” e le venature rock di “Ezy Rider” , l'album è più morbido del suo “gemello”, riscosse un moderato successo commerciale (sarà anche perchè Mitch Mitchell torna in supporto dell'artista, e la zuccherosa “Angel” si più elencare tra le melodie più ispirate&catchy dell'artista) , confezionando al suo interno godibili brani con anche ottime intuizioni ( l' arpeggio di “Night Bird Flying” , la fantasia di “Astro Man”) che però infondo nulla aggiunge ne toglie alla memoria complessiva di Jimi (si sfiora il Lo-Fi con “Belly Button Window” )

Live&Disco Postumi&Amenità varie :
c è da dire una cosa, tra l'avidità di Chandler e una non precisissima legge sul Copyright del periodo, il mercato è stato letteralmente invaso di prodotti che catturino almeno una nota di Hendrix. Dalle Demo ai live, fino a giungere alle jam session e scarti di sovraincisioni. Dell' 80% di sta roba potete farne tranquillamente a meno (a meno che non vi vogliate ascoltare la trecentesima versione di Fire ,ecc ) ,vale la pena solo spendere due parole sui prodotti che solitamente sono più in risalto su questo diluvio commerciale e chicche varie:

Live At Woodstock : non penso devo aggiungere molto qui, esibizione spettacolare, graffiante, dal suono crudo. Da avere
In The West : fossi in voi,lo eviterei, ci sono inediti si, ma sembra si voglia davvero grattare il fondo di un barile che grida pietà.
War Heroes : vale il discorso fatto sopra. Ma se proprio dovete ascoltarvi uno dei due,vada per questo.
You Can Be Anyone -Timothy Leary : un occasione per sentirlo suonare il basso , l'amico Buddy Miles alle pelli, godibile.
Isle Of Wight: se ne parla sempre tanto, il Woodstock dei poveri, ma il concerto non andò bene, clima ostile, Jimi che non recupera la stanchezza dal viaggio, è un po' appannato...
Live at Berkeley- 2nd Show : decisamente meglio. Da avere
South Saturn Delta: è pure del catalogo della famiglia di Hendrix,ma non ne trovo il senso. In bilico tra una raccolta,inediti e due alternate version, ma prendere un disco per una nuova versione di All Along The Watchtower ,non so se convenga.
The Ultimate Experience: best of fatto come la faccia loro, da evitare.
BBc Session: in doppio disco, tutte le apparizioni di Jimi alla radio e televisione. Con cover inedite, Jingle per radio one per la stessa radio,intermezzi di intervista, e più spazio (una volta tanto) ai brani di Axis. Qualità ottima, da avere.

Live at Monterey: tour del primo disco, merita.
Concerts: raccolta,inutile.

The Jimi Hendrix Experience Box Set : 4 cd ( e se non erro, 1 dvd ) , il prezzo è alto, ma è il must per gli appassionati di alternate versions ,unrelased e live rari di brani. Qualità ottima.



Gidan Razorblade