Creative Commons License
Rock e Dintorni by Rock e Dintorni is licensed under a Creative Commons Attribuzione-Non opere derivate 2.5 Italia License.
Based on a work at rockedintorni.blogspot.com. .

mercoledì 20 gennaio 2010

A volte ritornano...

Voglio scusarmi per questi quasi sette mesi di silenzio, per quei quattro gatti (che è anche il nome di un locale storico di Barcellona, frequentato da Picasso e da altri intellettuali) che avevano qualche problema mentale ed erano soliti seguirci. Il blog non ha chiuso, il blog non è morto solo che alla fine abbiamo preferito continuare ad occuparci a pieno regime del forum (http://rockedintorni.forumfree.net), piuttosto che aggiornare costantemente questo piccolo luogo-non luogo nel web. In primo luogo (gioco di parole non voluto) perchè il forum vive grazie al dialogo e la semplice lettura dei contenuti è antitetico al nostro concetto di musica, in secondo luogo perchè alla fine gli aggiornamenti a volte non arrivavano puntuali e si rischiava di pubblicare qualcosa giusto per riempire gli spazi vuoti.
Quindi se proprio si vorrà inserire qualche nuova review ed articolo sarà orientato soprattutto verso le comunicazioni, le playlists e le reviews degli artisti italiani emergenti.

Ci si becca sul forum.

Sgabrioz

giovedì 4 giugno 2009

Kylesa - Static Tensions (2009)



Anno: 2009

Etichetta: Prosthetic records

Tracklist:
1. Scapegoat
2. Insomnia For Months
3. Said And Done
4. Unknown Awareness
5. Running Red
6. Nature’s Predators
7. Almost Lost
8. Only One
9. Perception
10. To Walk Alone

Line up
* Corey Barhorst - Bass
* Phillip Cope - Guitar, Vocals
* Laura Pleasants - Guitar, Vocals
* Eric Hernandez - Drums
* Carl McGinley - Drums


Ci sono due termini adatti a focalizzare questo disco e quei due termini sono probabilmente "intreccio" e "groove". Il primo riguarda il grande lavoro compiuto dalla band, sia nella fase di scrittura che di registrazione, sugli strumenti e le parti vocali. I semi del rinnovamento erano già presenti in Time Will Fuse its worth, ma apparivano più sporchi e acerbi. Le componenti sludge e metal, infatti, erano sicuramente più notevoli ma si rischiava di offrire una prova che fosse eccessivamente potente a discapito della melodia e della ricerca. In Static Tensions invece c'è una costante ricerca delle nuove soluzioni, dovuta ad un intreccio assolutamente ineccepibile tra gli elementi che erano già un punto di forza nei predecessori ma che ora appaiono calibrati. Confermare la scelte delle due batterie potenzia una sezione ritmica che spazia tra la jam prog e l'efficacia delle parti più incalzanti metal, tra la violenza sludge ed il groove. I riff e le parti di chitarra sono maliziosamente studiate e duettano alla perfezione, così come le due voci - maschile e femminile - ora si contrastano ora si completano. Il secondo elemento caratterizzante è il groove, la ripetività di certi riff o di certe battute rafforza quella maggiore sperimentazione sonora esaltata dall'ottimo lavoro di Laura Pleasant. A tutto questo aggiungete una pulizia che non significa tradimento delle sonorità che li hanno portati fino a questo punto, ma semmai un labor limae che ha portato a levigare un sound in partenza mastodon-melviniano e figlio di sonorità hardcore-sludge. Lo schema delle canzoni non è mai statico, ma in tensione pur presentando dei elementi comuni e che fungono da filo conduttore: questa è la mia personale spiegazione del titolo. Static Tensions è il capolavoro della scuola Kylesa, per ora rimane il punto più alto in tutto, a partire dall'ottimo artwork di John Dyer Baizley (cantante e chitarrista dei concittadini Baroness). Disco capace di accontentare tutti, da chi apprezza i brani più coinvolgenti e veloci (Insomnia for months, scapegoat, almost lost) ad i brani più compassati e complessi (running red, to walk alone, unknown awareness), senza offrire un momento di calo creativo o di sosta. Un disco su cui scommettere in questo 2009.



Sito ufficiale

Kylesa - myspace



Sgabrioz

mercoledì 3 giugno 2009

Kylesa - Time Will Fuse Its Worth (2006)




Anno:
2006

Etichetta:
Prosthetic Records

Line-up:

Corey Barhorst - Bass, Vocals

Phillip Cope - Guitar, Vocals

Laura Pleasants - Guitar, Vocals

Jeff Porter - Drums

Carl McGinley - Drums


Tracklist:
1. Intro
2. What Becomes an End
3. Hollow Severer
4. Where the Horizon Unfolds
5. Between Silence and Sound
6. Intermission
7. Identity Defined
8. Ignor Anger
9. The Warning
10. Outro


Una lunga strada all interno della sofferenza..Ecco come si presenta l' ultima fatica degli statunitensi Kylesa, concitaddini di band come Baroness e Mastodon (nelle vicinanze).
Dopo un album d esordio tanto inaspettato quanto gradito quale To Walk A middle Course, il combo da alla luce un vero gioiellino che si staglia nella nuova scena "progressive". Non sperate però in tecnicismi cari a band come Dream Theater o Fates Warning, la materia è intesa in tutt'altro modo.Due batterie, due chitarre e tre voci...Un album dove l' hardcore, lo sludge, lo stoner e la psichedelia vanno a fondersi per dare vita a un maelstrom sonoro di rara bellezza e intensità...le derive psichedeliche, sono senza dubbio la novità di questo full length, inserite alla perfezione in pezzi come Where The Horizon Unfolds e Between Silence And Sound. Il lavoro della band è ottimo, ogni membro incastra la sua parte alla perfezione, anche la signora Laura Pleasants, che non porta certo la gonnella (nonostante sia davvero ammaliante) non si tira indietro con riff e vocals squillanti.
Un vortice sonico che non lascia prigionieri, che graffia selvaggio come una fiera ferita.
Un muro sonoro massiccio e impossibile da scaflire, si senta il carattere intimidatorio dei riff di Ignoring Anger e The Warning. Un avvertimento appunto. Le vocals coinvolgenti di Hollow Sever, per la quale è stato girato pure un video, il suono dilatato e tribale dei due minuti di Intermission, o i riff che rallentano e pestano come fabbri in Identity Defined. La sperimentazione ha avuto inizio per la band e i nostri in futuro sapranno sicuramente forgiare un sound ancora migliore.Un suono fangoso e pulviscolare tipico di band come Eyehategod, Neurosis, Taint, primi Mastodon.
Da apprezzare in tutta la sua pachidermica portata, lasciandosi trainare dalle sfuriate che sanno ancora di crust e hardcore.
Intrappolati nella loro palude sonora.


Neuros.

martedì 2 giugno 2009

Baroness - Red Album (2007)


Anno: 2007 Etichetta: Relapse Tracklist: Rays on pinion The birthing Isak Wailing wintry wind Cockroack en fleur Wanderlust Aleph Teeth of cogwheel O’ appalachia Grad Hidden track line-up: John Baizley – chitarra e voce Brian Blickle – chitarra Summer Welch – basso Allen Blickle – batteria
La Georgia (negli Usa, non in Europa, nda) si stà lentamente trasformando in una fucina inesauribile di grandissimi combo, amanti delle sonorità pe(n)santi, il cosiddetto heavy me(n)tal, dando i natali prima agli stratosferici Mastodon, poi ai potenti kylesa, ed infine ai creatori del disco oggetto di questa review. Dopo due split più orientati verso uno sludge miscelato con un post-core, le cui radici affondavano nella tradizione già creata da band come Neurosis e Isis, il quartetto di Savannah torna con il suo primo full-lenght: un battesimo del fuoco dove si giocano tutto, trovandosi al bivio tra la gloria e la polvere, tra l’essere un fac-simile iperderivativo o divenire una potenziale realtà, capace di trasformare le premesse in solide fondamenta. Il red album è capace di soddisfare i diversi palati a cui si presenta, grazie alle diverse anime di cui è composto, come un caleidoscopio dalle numerose sfaccettature l’immagine non è mai quella che appare in maniera statica, ma cresce e si evolve ascolto dopo ascolto. La struttura melodica rispetta, nella maggior parte dei casi, un’impostazione di stampo prog, con lunghe dissertazioni sonore che compongono un mosaico le cui tessere, rette da un duetto di chitarre in sincro, rendono dinamico ogni singolo brano. L’atmosfera si sviluppa in maniera ora frenetica, ora riflessiva, ma ciò che sicuramente incuriosisce è il modo in cui la tecnica di ogni singolo componente è capace di elevare il brano a struttura compatta. I muri sonori si ergono su un unico riff portante, al quale si agganciano le singole idee sviluppate, in maniera parallela, da voce, chitarre e sezione ritmica. Merita sicuramente una menzione d’onore la batteria, che è capace di creare tappeti di ritmiche sincopate e di taglio jazzistico, intarsiare mantra sonori sfruttando le proprie conoscenze prog, metal e stoner-psych. E’ questa ricchezza di sonorità e stili che permette al disco di volteggiare, in un valzer irresponsabile, tra le diverse influenze, creando un pot-pourri che rende così difficile la classificazione e l’utilizzo di un’etichetta musicale univoca, che riesca a ingabbiare in un termine tutta l’anima- o meglio le anime - che vivono all’interno del progetto baroness. All’interno del disco trovano spazio anche episodi acustici e strumentali (“cockroac en fleur”), oppure brani più veloci e diretti (teeth of a coaghwheel, O’appalachia) sferzanti di frenetica rabbia e mordente. Dilungarsi sugli elementi che compongono ogni singola traccia sarebbe quantomeno prolisso e superfluo. Basti sapere che si tratta di un’uscita imprescindibile di questo 2007 appena conclusosi, che proietta i baroness in una posizione di tutto rispetto, meritato e guadagnato attraverso jam sofisticate e ben sviluppate, nel panorama mondiale della musica heavy n’ loud. Nel nuovo corso, inaugurato da gentaglia come Kyuss e Neurosis, sicuramente si trovano band capaci di aprire il becco senza risultare soporiferi o la classica minestra già riscaldata.

Sgabrioz

Crime In Choir - Trumpery Metier (2006)





Anno: 2006

Etichetta: GLS Records

Line up
Kenny Hopper: Rhodes piano
Jesse Reiner: Synthesizers
Jarrett Wrenn: Guitar
Tim Soete: Drums
Matt Waters: Saxophone
Jonathan Skaggs: Bass
Tim Green: Guitar

Tracklist:
  1. Women of Reduction
  2. Complete Upsmanship
  3. Land of Sherry Wine and Spanish Horses
  4. Grande Gallo
  5. High Thin Circus
  6. Measure of a Master
  7. Trumpery Metier
  8. The Hollow Crown
  9. Octopus in the Piano


C’erano una volta gli At the drive-in, amici amiconi che si dilettavano a far rock strepitoso e contaminato, prendendo spunto da quello che capitava, ma riuscendo a rimanere allo stesso tempo eclettici, potenti, straordinari e legati ad uno stile rock più “canonico”. Apparentemente tale frase potrebbe sembrare un’antitesi continua, un’unica contraddizione in termini…un cortocircuito logico, in parole povere. Ma vi sfido ad ascoltarveli, ma credo che tutti voi sappiate chi siano gli ATD-I…

Bene, dal gruppo, dopo il 2001, nacquero i The Mars Volta, gli Sparta ed i Crime in Choir: tre gruppi completamente differenti tra loro. Trumpery metier è il terzo disco dei CIC, ed è il primo pubblicato con la nuova etichetta, la Gold Standard Lab di proprietà di Omar Rodriguez Lopez, amico ed un tempo negli Atd-i insieme a Jarrett Wrenn e Kenny Hopper. Questo lavoro è qualcosa di fenomenale, come non si sentiva da qualche anno: rivelazione e uno dei possibili dischi dell’anno, insieme a Return to cookie mountain dei TV on the Radio: pur essendo un disco completamente strumentale, riesce a non stancare, a non annoiare perdendosi in fraseggi ampollosi e arzigogolati, confusi quanto le indicazioni stradali ottenute dal vecchio arteriosclerotico e sordo incontrato per strada la domenica pomeriggio. Non c’è il desiderio di sviluppare trame onanistiche, pure e semplici costruzioni in cui il fine è impressionare per la “tecnica”. No, qui l’obiettivo è meravigliare, emozionare, stupire, colpire, accattivare, distogliere l’attenzione sul mondo e rivolgerla alla musica, costringendo l’ascoltatore a rimanere a bocca aperta per ogni singolo passaggio, accordo, scambio di battute tra gli strumenti. Non sono bravo nelle classificazioni, perché nei CIC c’è tutto: la batteria che viaggia tra il prog malato dei King Crimson, i Gong ed i Rush ed il math rock dei don Caballero e gli Shura, le vibrazioni sassofonistiche del jazz-core e della fusion, la chitarra malata di Fripp, Hendrix, Hackett nel periodo più cazzuto dei Genesis. C’è indie, c’è psichedelica flkoydiana come se Barrett fosse il direttore artistico di questo gigantesco festival sotto forma di supporto ottico. Volete la sperimentazione elettronica di Mike Oldfield? Ce l’avete. Volete i trip dello space rock hawkwindiano? Ve lo diamo noi! Questo lavoro è una bomba al neutrone pronta ad asportarvi ogni frammento di cattivo gusto per la musica. Dopo aver sentito questo, la vista dei blink vi farà venire l’orticaria, l’indiegay sarà più venefico dell’antrace, inizierete a temere J-Lo e astanti come il mobile in stile rococò di Zio Giovanni Maria teme i tarli.
Non troverete una canzone brutta, tutti suonano perfettamente e senza mancare mai di fantasia.


Sgabrioz

CIC - Myspace


sabato 30 maggio 2009

Into My Plastic Bones - Words I Do Not Say (2006)




Anno: 2006

Ettichetta: autoprodotto

Tracklist:
01 Screwed Finger 5:23
02 A Seagull Stole My Vodka Lemon 2:53
03 Bleeding Beauty 4:48
04 Dichotomy 6:27
05 Oil On Canvas 12:20
Un carillon impazzito, che ripete lo stesso giro cacofonico ma da cui si intravede una certa attitudine alla melodia. Un vinile graffiato, in cui la puntina ricade sempre negli stessi solchi, ripetendo incessantemente una traccia sonora, mentre echi lontani a tratti spaziali, a tratti psichedelici, irrompono in una marasma di sperimentale destrutturazione del suono. Parrebbe un disco di noise, invece è "Oil on canvas", brano di 12 minuti in cui rifuggono le varie sfaccettature del suono, nelle sue dimenzioni più sgraziate, ma che hanno appassionato i veri amanti del rock. La distorsione, il feedback, la ricerca degli effetti da Stockhausen fino a giungere ai lidi più icnandescenti del post-core e del noise. Tuttavia gli Into My Plastic Bones si presentano come brand crossover-sperimentale, sebbene le categorie sono relative e utili solo per avere delle coordinate iniziali. Il sound è complesso, sporco, ruvido e corposo, trio proveniente da Torino che nel 2008 muterà pelle e pubblicherà il suo secondo lavoro (entrambi in download gratuito sul loro sito). Dobbiamo dare un'interpretazione estesa del termine crossover, non limitandoci alla scuola tipica di Primus, Red Hot o Faith No More ma andando a cogliere il concetto da un punto di vista simbolico: lo scavalcare i genere verso la totale volontà di creare qualcosa ben oltre le barriere diarietiche. E qui c'è tutto, pur essendo un disco con pochi brani e strumentali. Impressionante la carica math che trasuda con forti citazioni di due band in particolare, Don Caballero e Irepress. Ma anche hardcore raffinato e bordate che si stagliano tra il progressive ed incedere crossoveristico e noise-jazz-core. Ci verrebbe automatico citare i classici esponenti del genere, ed è indubbio che la mentalità di questi ragazzi sia caratterizzata da un'instacabile desiderio di coniugare una spasmodica ricerca del sound godibile ed orecchiabile ( Bleeding beauty ne è l'esempio più palese), con la scelta di percorsi tortuosi e accattivanti, nella più pura follia sperimentale. Pluralismo sonoro, che alterna fasi più atmosferiche (vicine anche alle nuove correnti post-qualche cosa), ad altre più dure e massicce, che rimandano anche a Melvins, Tool ed Helmet. Un gran bell'ep, una band che potrebbe esplodere e diventar eun punto di riferimento. Naturalmente consiglio di sentirli e di procurarsi anche il nuovo episodio. Ne vedrete delle belle.

IMPB - Myspace

Download gratuito del disco.



Sgabrioz.

giovedì 28 maggio 2009

Antony And The Johnsons - The Crying Light (2009)




Anno: 2009

Etichetta:
Secretly Canadian

Tracklist:
1. "Her Eyes Are Underneath the Ground" (Antony & Nick Hegarty) – 4:24
2. "Epilepsy Is Dancing" – 2:42
3. "One Dove" (Antony & Barry Reynolds) – 5:34
4. "Kiss My Name" – 2:48
5. "The Crying Light" – 3:18
6. "Another World" – 4:00
7. "Daylight and the Sun" – 6:21
8. "Aeon" – 4:35
9. "Dust and Water" – 2:50
10. "Everglade" – 2:58

Sarebbe ridondante iniziare a riportare tutte le citazioni, di critica e "colleghi", riguardo al progetto Antony And The Johnsons ed il suo leader, Antony Hegarty. Le attestazioni di stima si susseguono con sempre maggiore frequenza, a partire dalla sua comparsa nel mondo della musica agli inizi del XXI secolo. Pupillo di Lou Reed e David Tibert (Current93), il ragazzone inglese classe '71 ormai è acclamato come portavoce ed icona della comunità gay, titolo di cui si presume vada fiero e ne sia soddisfatto. Ma ciò non dev'essere necessariamente sinonimo e sintomo di eccessi iconografici ed "estreme manifestazioni" che potrebbero sfociare nell'irriverenza, seppure esteticamente nobile e dignitosa, del burlesque e della parodia del gay a la Rocky Horror Picture Show. Lo stesso Boy George, a cui Antony ha dedicato una canzone in cui lo appella come sorella maggiore, ha sottolineato la grandezza di questo astro nascente del pop sofisticato ed elegante. Diamanda Galas, per fare un nome a caso, ha elogiato apertamente la voce immensa del trentenne proveniente dal Sussex. Credo che si sentisse veramente la mancanza di un disco di questa potenza lirica, da tempo non capitava di sentire una voce nuova che fosse allo stesso tempo così "classica" e tuttavia capace di cogliere sfumature adeguate ai tempi. Tutto in questo disco è praticamente perfetto, a partire dall'immagine rappresentata sulla cover frontale del disco. Un'istantanea che si divide tra una parvenza di sacralità del teatro giapponese, con un sentimento di decadenza barocca come a significare che il bello è destinato a cedere il passo all'inserobile scorrere del tempo. Ma nel disco c'è molto di più, in primis un approccio che travalica i generi e le situazioni, spingedosi a cantare della società umana. Cogliendola in trasversale ed attraversandola da capo a fondo, si interessa solo di piccoli momenti e aspetti che, seppure secondari, in realtà sono preziosi e significativi. Gli strumenti adottati sono il bel canto e degli arrangiamenti di eccellente spessore, che dipingono impressioni su tele candide. Le doti vocali spaziano dal tenorile al pop anni '80 alla costante ricerca di sfumature e virtuosismi canori, tra il rhtym n' blues di classe e l'eleganza della lirica classica. Senza perdere di vista la melodia ed il songwriting godibile e orecchiabile, The Crying Light offre momenti di travolgente passione ed emotività, pronta a toccarti dentro e travolgerti. Incantevole e seducente, vi troverete piacevolemente "turbati" dalla convinzione e forza con cui Antony canta e descrive momenti di pura teatralità. Uno dei possibili dischi del 2009, ma di cui si sentirà parlare. Sgabrioz