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sabato 4 ottobre 2008

Pater Nembrot - Mandria ep




Anno: 2008 Label: Go Down Records/Audioglobe



Tracklist:

Collirio d'Oltremare (2:50)
E' permesso? (3:59)
Mandria (10:26)
Il Ponte Dei frati (3:28)




A volte si ha la sensazione di trovarsi a tu per tu con qualcosa che potrebbe deflagrare e spazzare via ogni classifica, regola, limite e barriera imposto da qualsiasi tipo di autorità. E' un sentimento di ribellione, di necessaria fuga dalla prassi quotidiana e dal tran tran urbano della nostra civiltà, troppo frenetica, dinamica ma allo stesso tempo fossilizzata su costumi antichi e troppo arcaici per essere messi in discussione, nonostante debbano essere necessariamente cambiati. Questo è il presupposto da cui voglio muovere per parlarvi dei Pater Nembrot, power trio emiliano, amante di sonorità fuzzose e acide, che fonde lo stoner rock con la psichedelia acida, ma andando a palpare le chiappe dell'hard rock e di melodie legate a generi figli degli anni '70, come il kraut dei Can (tanto per fare un nome roboante, come direbbe quel veneto alcolizzato di Bruno Pizzul) o il progressive. Mandrie è un ep composto da quattro brani, che mettono in evidenza le due facce della medaglia chiamata Pater Nembrot: la carica ed il tiro groovoso nei tre pezzi sotto i tre minuti, e la sinuosa melodia riverberata nella psichedelica canzone che dà il titolo all'ep stesso, snodandosi per 10 minuti nei quali il mantra si estende e si dirama come un gigantesco baobab
, dal quale fiori multicromatici danno vita a immagini lisergiche, prive di ogni contatto con la realtà. La carica che si distende dalla chitarra di Filippo Leonardi, al contempo voce e druido ai synth, eleva l'ascoltatore a cadetto della fanteria della quarta dimensione, dove nulla è come sembra e se volessimo trovare dei punti di appiglio chiamiamoli con i loro nomi. Kyuss (nelle cavalcate lunghe e distorte), Colour Haze (soprattutto Los Sounds der Krauts), Pink Floyd e 13th floor elevators (tra i grandi numi della psichedelia di fine '60). Elemento fondamentale che distingue i PN da altri gruppi italiani, e che allo stesso tempo ha permesso che venissero adocchiati dalla magnifica e lungimirante Go Down Records (El Thule, FuckVegas, OJM, Gorilla, ReDinamite..) è sicuramente la scelta di cantare e scrivere ottimi testi in italiano, opzione coraggiosa e che merita rispetto, visto che in inglese spesso si scelgono liriche più per la loro malleabilità e capacità di risultare orecchiabili, piuttosto che mettere il contenuto in primo piano. I Restanti tre brani sono fulminanti corse all'impazzata su muscle cars guidate da gente come Queens of the stone age e fu manchu, per il loro modo di unire melodie e ritornelli catchy con stoner rock cazzuto e ben pestato; ma non è tutto qui: perchè ad ogni passo, ogni nuovo mattoncino che costruisce il muro di fuzz valvolare che viene eretto da Giacomo Faedi (fisicamente è il figlio di Geezer Butler, e non solo fisicamente....ho detto tutto, ciccio) e Filippo, contribuisce la batteria e la ritmica dell'ottimo Giulio Cascioni. Attendiamo questo 2008 per avere tra le mani il full lenght, che sicuramente sarà una bomba allucinante e che proietterà questi ragazzi in orbita, tra le maggiori promesse in ambito stoner italiano.

Support!!!


Myspace

Sgabrioz

Witchcraft - The Alchemist (2007)






Anno: 2007 Label: Rise Above Records


Tracklist:

Walk between the lines
If crimson was your colour
Leva
Hey Doctor
Samaritan's burden
Remebered
The Alchemist: part 1/2/3

Line up:
Magnus Pelander
vocals, guitar
John Hoyles
guitar
Ola Henriksson
bass
Fredrik Jansson
drums



Leggendo il titolo di questo terzo lavoro degli svedesi Witchcraft, mi è venuto in mente “il Dottor Sottile, l'alchimista”, poi a seguire Michael Sendivogius, alchimista polacco che visse a Praga sotto l'impero del Grande Rodolfo II, e si dice che conoscesse il segreto della pietra filosofale: il santo Graal degli alchimisti, l'obiettivo ultimo di una vita dedita a ricerche e analisi, trasformando il peltro in oro, e le anime dannate in anime redente. I Witchcraft hanno compiuto lo stesso iter esoterico-musicale, realizzando la Grande Opera: creare nel terzo millennio quello che potrebbe essere la summa dell'hard rock degli anni sessanta e settanta, rendendo omaggio ai maestri ma facendolo con personalità riuscendo quindi a distinguersi da tante band revivalistiche, recitando una formula magica che contiene l'eredità del passato, ma proiettata nel futuro. Durante il loro percorso di formazione, le release targate witchcraft sono state caratterizzata da una forte presenza di suoni datati, ma sempre più particolari, arricchiti da nuove sfumature e da prove di tecnica e groove, dal tiro alto e la mancanza di cali qualitativi. Walk between the lines riprende nella voce di Pelander, il Morrison più galvanizzato mentre la melodia è catchy ma di grande valore, mentre le influenze si sprecano e verrebbe da citare i Black Sabbath e Pentagram, su tutti. Nel corredo genetico figurano anche i diversi power trio del rock '60 come i cream con il loro blues sofisticato, gli experience di Hendrix e la potenza sonora acida dei Blue Cheer. In If crimson was your colour dal titolo si capisce l'amore che provano per la band di Bob Fripp, nel suo incedere maestoso come una cavalcata a perdifiato per la brughiera, il ritmo è incalzante e ci rimanda alla mente anche gli Uriah Heep di Salisbury, forte di un'ottima prova all'hammond. Leva è interamente scritta e cantata in svedese, una gemma lucente nel suo ritmo tra i deep purple ed i cream, i blue oyster cult ed i grand funk railroad. Hey doctor propone un'andatura sognante e dal riff portante che è quasi angelico, per poi scendere nelle profondità dei sabbath e rimanerci. Samaritan's burden è la coronazione di un sogno: parte leggera e ritmata da un bel drumming, mentre il basso sotto lavora e trivella creando un ritmo prog di grande atmosfera, fino a portarci ad una chiusura arpeggiata in stile led zeppelin. La chitarrra di Remembered èp padrona assoluta del cosmo, dal riff al giro tutto congiura per farti cadere in trappola e renderti prigioniero del rock; ti aspetti di tutto tranne una chiusura col sassofono che duetta con la chitarra, come in shine on you crazy diamond dei Pink Floyd. E' il tempo della suite che dà il titolo al disco: undici minuti tripartiti per un'unico brano che prende tutto quello che c'è nel disco e lo fonde assieme, impossibile descrivere nel dettaglio; ma possiamo limitarci a dire che sono le tre anime del rock senza compromessi: quella moribda e riflessiva, quella dura e possente, quella oscura e criptica. Un album che, se non fosse uscito nel 2007, giurirei essere nel 1970. I'll blow your mind.


Links:

Myspace

Sito Ufficiale


Sgabrioz

mercoledì 1 ottobre 2008

The Jesus And Mary Chain - Psychocandy (1985)


Anno: 1985 Label: Blanco Y negro/WEA

Tracklist:

1. Just like honey
2. The living end
3. Taste the floor
4. The hardest walk
5. Cut dead
6. In a hole
7. Taste of Cindy
8. Some candy talking
9. Never understand
10. Inside me
11. Sowing seeds
12. My little underground
13. You trip me up
14. Something's wrong
15. It's so hard

Line-up:

Jim Reid (voce, chitarra)
William Reid (voce, chitarra)
Douglas Hart (basso)
Bobby Gillespie (batteria)

Il termine “pietra miliare” indica solitamente, quel lavoro in ambito artistico-musicale, capace di mutare ed innovare la scena dell’epoca, e la cui seminalità ed importanza si riscontra non solo negli anni immediatamente a seguire, ma anche a decenni di distanza. Se Velvet Underground & Nico (1967) è stato capace di lanciare l’astro di Lou Reed e di influenzare tout court il modo di fare musica (sperimentale, alternativa e underground), allo stesso modo i suoni proposti dai fratelli Reid sono “responsabili” dell’ondata shoegaze e noise (pop o rock) che si è abbattuta inesorabile a partire dalla fine degli anni ’80, l’ha fatta da padrona nei ’90 ed è tuttora una delle più arzille e creative. Nomi storici e di grandissimo calibro: Sonic Youth, My Bloody Valentine, Slowdive. Lo shoegaze (traducibile liberamente in “guardascarpe”) è uno stile di rock che fa della distorsione e del feedback, con tutti gli effetti simili e derivati, la sua religione: ispiratori di questo movimento furono i Velvet Underground, soprattutto con il disco White Light/White Heat (1967) in cui è contenuta “Sister Ray” uno dei primi pezzi noise, 17 minuti di pure deviazioni soniche. La ricerca – quasi animalesca – di suoni distorti, allucinati ed anfetaminici, spinge i vari musicisti a creare massicce barriere sonore, innalzando veri e propri muri in cui i sensi sono espansi in una sorta di new way of psychedelic mood. Psychocandy è indubbiamente uno dei capolavori degli anni ’80, segna il passaggio tra la vecchia new & dark wave (Joy Division in testa, soprattutto per il modo di suonare il basso: cupo, pieno, distaccato e protagonista), la frequenza esagitata del punk, ed un nuovo stile di intendere le canzoni pop rock. Il gruppo di Glasgow non è solo incredibilmente influente, imprescindibile per ogni buon amante del rock, ma è stato capace di devastare l’uso della chitarra mantenendo un certo suono datato (VU e Stooges, il gruppo di Iggy Pop, anch’esso della fine dei ’60) e stupendo, mischiando il tutto con personalità ed una buona dose di pop e melodie easy listening ed orecchiabili. Just like Honey è il pezzo più famoso dei Jesus and Mary, entra in testa e rilascia i germi dello shoegaze: lo stile è tipicamente quello di Lou Reed, pacato, gentile, raffinato e drammaticamente commovente. Una delle canzoni d’amore più belle e struggenti che abbia mai ascoltato, un inesauribile lamento di un amante disperatamente innamorato della propria donna: immaginatevi un uomo avvolto nel suo cappotto, che cammina da solo in una parco al tramonto, mentre il vento freddo dell’autunno lambisce il volto. Si siede su una panchina, dopo aver spostato un vecchio quotidiano, incrocia le braccia, accavalla le gamba e riflette su quanto effettivamente ami una persona, osservando il tramonto, specchio del futuro. Non importa se è umiliante o faticoso, l’unica cosa che veramente conta è amare e fare di tutto per soddisfare e rendere felice qualcuno. E’ interessante come lui stesso ammetta la sua totale condizione di uomo-zerbino: Walking back to you, Is the hardest thing that I can do, That I can do for you. Ill be your plastic toy. The living end è una storiella macabra, caratterizzata da un umorismo nero: ha la carica sprezzante del punk, il sistema di canto è ancorato alla ripetizione della stessa strofa per tutta la canzone, mentre lo stile è postpunk i cui tempi permettono anche di ballare su questo ritmo. Racconta le vicende di un motociclista, egocentrico ed innamorato di sé stesso, incosciente e pronto di tutto pur di appagare la sua sete di velocità: la sua mente non è lucida come il suo chiodo, ma poco importa se sei padrone della strada e la divori sentendo il vento freddo tra i capelli. Ma ad un certo punto si accorge che la velocità è alta. Troppo alta. Non controlla la sua bestia. Ma chi se ne fotte: è una scarica di adrenalina che ti fa vivere sul serio. La frenesia sonora aumenta, assieme alla distorsione. Quando sei al limite, in bilico, nulla ti può fermare. Tranne un albero. My head is dripping into my leather boots.. E’ un esempio di pubblicità progresso, se vogliamo. Taste the floor è realizzata su un impianto luci psichedelico e deviato, una vera dissertazione della deviazione effettata con il feedback: è un modo come un altro per indicare la sbornia ed il grado di allucinazione dato dalle sostanze psicotrope. La musica riproduce la confusione mentale ed lo stato di alienazione e di perdita di contatto con la realtà: la voce è incessantemente e clamorosamente dark wave, mentre un misto di timore, paure e teoremi assale la mente. The hardest walk riporta la musica ad un livello più pop, tipico degli anni ’80: basso pompato, chitarra martellante e diretta: è la spiegazione di cosa si prova quando si desidera lasciare una persona che ancora vi ama. The hardest walk you could ever take, Is the walk you take from a to b to c. Cut dead è una ballata venata di malinconia e di speranza, per un futuro in cui la sofferenza ed il dolore siano solo un triste ricordo spiacevole, ma passato. Avete presente Transformer di Lou Reed? E “walk on the wild side”? ecco, lo stile è praticamente quello, a parte l’assenza del coro di voci femminili. In a hole è il grande ritorno della distorsione e della tecnica allucinogena di perforarvi il cranio, ma in maniera piacevolissima e terapeutica: è un elettro-shock di vibrazioni per sinapsi, un dono prezioso per aprire la vostra mente ed analizzare il vostro modo di intendere la musica. Taste of Cindy è il pezzo più breve del disco , appena un minuto e quarantadue, in cui viene ripreso il punk, la melodia new wave su cui molti gruppi attuali (Franz Ferdinand, Kaiser Chiefs, The Killers, Bravery) hanno costruito interi lavori discografici. Some candy talking è un altro diamante dell’album, l’ennesima piccola gemma che va ad incastonarsi in maniera meravigliosa in questo masterpiece del 1985, le parole sono inutili quando sono solo i sensi a poter descrivere in maniera oggettiva la bellezza di certe canzoni. Never Understand è un interminabile flusso di coscienza, dove il plettro conduce in una freudiana marcia verso l’inconscio con tanto di basso e batteria suonati con precisione chirurgica, urla pre-lobotomia, pischedelia nel termine oscuro di farmakon. Inside me è una discesa verso i confini abissali della mente, una spirale noise e rumorosa, la cui base ritmica rimane il basso suonato in maniera ineccepibile e la voce capace di adattarsi a diversi registri. Sowing seeds combina la batteria pseudo elettronica, la chitarra simil acustica ed una cantato reediano in una somma algebrica pop rock: la sensazione che traspare è la richiesta di pace e tranquillità, di calma e silenzio adatta al riposo, panacea per lo stress mentale. My little underground è un vivissima trasposizione del post punk nel mondo del gruppo di Glasgow: la chitarra è storpiata, smussata, plasmata, dimenticando parte dei suoni canonici ed acquistando un sound completamente rinnovato e accattivante. You trip me up, dal testo abbastanza significativo: dimostrazione di come una relazione possa risultare machiavellica, spaccapalle e autolesionista. Something’s wrong e It’s so hard sono due pezzi particolarmente carichi, i due più particolari, surreali e violenti. Non dal punto di vista della durezza o della rocciosità del suono, ma quanto unoa violenza mentale, degna conclusione di questo disco. In sintesi voi cosa dovete fare arrivati a sto punto? Me ne fotto! Compratevi il disco e non rompetemi le bolas. Ma siete ancora qui? Pensavo vi foste annoiati già alla settima riga.
Volete il voto? 9 su 10. E chi se ne frega se è troppo poco, o se è esagerato.



Sgabrioz

martedì 30 settembre 2008

Talk Talk - laughing stock (1991)





Anno:
1991 Label: Polygram

Line Up:
Mark David Hollis - voce, chitarra, pianoforte
Paul Webb - basso
Lee Harris - batteria
Tim-Friese Greene - tastiere

Tracklist:
1. Myrrhman
2. Ascension Day
3. After The Flood
4. Taphead
5. New Grass
6. Runeii




Lo Spirito dell’ Eden. Così si intitolava il quarto disco dei talk Talk, band inglese degli anni ’80, che raggiunse la maturità e l’evoluzione solo negli ultimi due dischi, dopo aver trascorso troppo tempo come band synthpop/new romantic e troppo poco nella veste di sacerdotessa del post-rock. Ma per quel poco che è durato, l’astro fulgido dei talk talk è riuscito a lasciare un’impronta nell’ambiente alternative rock degli anni ’90. “Laughing Stocks” si presta ad una lettura caleidoscopica, dalla migliaia di sfaccettatura ed un numero inesauribile di lenti, attraverso cui osservare quel microcosmo sonoro che si genera nella bellezza struggente di appena sei brani. I talk talk riescono nell’impresa di cristallizzare nell’ambra un turbinio di emozioni, sensazioni, fremiti, piacere, riflessioni, respiri, vita, morte, evoluzione, fantasia.. Insomma catturano ciò che è uscito dal vaso di Pandora e cercano di riportarlo in forma solida, materiale, palpabile. Così come è palpabile l’emotività che traspare momento dopo momento: non è un disco semplice, né tanto meno potrete capirlo dopo qualche minuto, o dopo un misero paio di ascolti. Ma vi servirà del tempo, perché le cose buone e naturali hanno bisogno dei loro spazi e dei loro momenti: in silenzio, mettetevi un paio di cuffie per riuscire ad assaporare ogni singolo istante, ogni singola goccia dell’ambrosia che trabocca dal disco. E’ incredibile come il minimalismo possa essere capace di esplodere in centinaia di sfumature, che non contemplerete mai nel medesimo frammento di secondo: per al cura e la ricchezza dei particolari si avvicina alla Scuola di Atene di Raffaello o ai Coniugi Arnolfini di Van Eyck. Nell’insieme è accattivante e monumentale, ma solo osservandolo nelle sue singole parti, sarete veramente colpiti dalla bellezza e dalla complessità di ciò. In laughing stocks nulla è lasciato al caso: la batteria, le tastiere, la chitarra, il basso: a volte possono sembrarvi monotoni o ripetitivi, ma con una lettura concentrata questo sarà solo la dimostrazione che la pace dei sensi si raggiunge attraverso il rilassamento e la totale abnegazione dei pensieri. Lasciate da parte gli esami, le bollette, la multa che avete beccato perché avete lasciato la macchina in ZTL, ma lasciate cullarvi e trasportarvi lontano dalla musica e dalla calda e vellutata voce di Mark david Hollis. Se Barry White è il profeta dell’amore, Hollis è il cantore della solitudine, della saggezza, della bellezza oggettiva, della sete di risposte, degli interrogativi sul futuro. Il suo tono vi scruta all’interno dell’anima, è l’idea aristotelica di “voce”, almeno dal punto di vista del rock canonico: calma, pacata, corposa, blues e nera (pur essendo un bianco). Ha influenzato un gran numero di cantanti passando dal pop al rock mainstream, sino a giungere all’ambient ed al trip hop adatto a lunghe giornate uggiose ed a pomeriggi passati a riflettere sul futuro e sugli errori del passato. Gli accompagnamenti sonori non sono mai banali o poco argomentati: si sviluppano e propagano nell’aria come incenso; inebriano i vostri sensi passando da atmosfere blues, a qualcosa che può ricordare il tipico soul da localino fumoso degli anni ’50, alla psichedelica in stile blues magoos o 13th floor elevators, al pop sofisticato e drammatico di Chris Isaack. Mark David Hollis è un attore e la musica è il suo palcoscenico: inizia Myrrhman dopo un minuto di silenzio, interpreta e soffre per tutto il disco, alternando singhiozzi a vocalizzi, toni più bassi di un ottava, che improvvisamente si stabilizzano. E’ la trasfigurazione del decalogo dei sentimenti e degli stati d’animo: la sensualità, lo scetticismo, la solitudine, la rabbia, l’apatia; nessuna delle componenti della natura umana viene lasciata in disparte perché tutte contribuiscono a formare la personalità dell’uomo. Ecco forse cosa ha questo disco: personalità, qualità rara ed affascinante che si stà lentamente perdendo. Non è solo un album, è un vero e proprio organismo: un giardino dell’ eden, che segue regole sia botaniche che filosofiche. Il ciclo della vita in tutto il suo meraviglioso e distruttivo splendore: la batteria emula il battito del cuore, pulsante e vivo, sincronizzato sempre sul medesimo battito per assicurarci che tutto vada bene e non ci sia alcun campanello d’allarme attivo. Le corde della chitarra vengono pizzicate in maniera sentita, instaurando un transfert tra le vibrazioni del rame e quelle della nostra anima, crescente e avvolgente sensazione di crescita ed espansione verso l’alto. A ciò contribuiscono la sezione fiati ed archi veramente curata, che riesce a dare quel tono raffinato ed elegante, come la porpora od il velluto. Tutto segue un preciso disegno, inspiegabile e pazzesco.


Sgabrioz

35007




Gli Olandesi 35007 (anche chiamati Loose) hanno guadagnato una posizione di tutto rilievo nel panorama stoner/psichedelico, egemonica direi, per quanto riguarda la scena europea; tra i principali eredi dei Kyuss, e infatti, al pari dei loro ispiratori, i 35007 sono stati stra-copiati, e al pari dei loro ispiratori, sono capaci di ricreare visioni paesaggistiche in musica, viaggi, miraggi, come tutti i grandi della musica del rapimento mentale, che è inutile nominare come fosse un rosario, perchè tanto nel suono dei 35007 ci sono proprio tutti, e ci sono tutte le caratteristiche del genere, ormai consolidato, anche grazie al loro apporto, in una (non)forma liquida e pesantissima. Quattro album e un ep di mezzo. I primi due sono in gran parte cantati e abbastanza eterogenei; gli altri due album e l'ep sono completamente strumentali, omogenei, quasi indivisibili pezzo per pezzo, dei blocchi unici in cui imbattersi e calarsi.





Especially For You [Stickman, 1994]

Quando dico che nei 35007 ci si deve calare, intendo proprio fare una similitudine con l'acqua, perchè è l'acqua l'emblema del suono della band, e simbolo è proprio il pezzo "Water", un lungo assolo diluito in mille bollicine sparse in un brano senza ne forma ne dimensioni, sinuoso e violento, ancora più martoriante in "Slide", che mostra due tendenze fondamentali: l'hendrixismo latente o esplicitamente citazionista e la passione per nuove tendenze hardcore sagomate di metallo, come quelle degli Helmet. "Zandbak" più che altro inacidisce Melvins e Godflesh, quindi il risultato è agreste come i primi e industriale come i secondi, e allo stesso tempo alieno. La voce, quando c'è, è distorta, disumana, filtrata, tra follie e campionamenti, un Caronte che fa strada nell'inferno, una voce narrante come Virgilio tra i morti. Dissonante e torbido il lamento orientale di "U Mu M'Nu", il frutto più maturo di questa panoramica di suoni e tendenze raccappriccianti e visionarie, come rallentare a dismisura gli Unsane, e caricarli di una ottusa martellanza psichedelica che invece dell'irruenza punta tutto sulla dilatazione nel tempo, nello spazio e specialmente nella testa. "Basciculo Ad Cumunum" porta un po di freschezza Morrisoniana, una nota morbida in un disco infernale, ma a dirla tutta, paragonata ad altri pezzi, è solo una straordinaria canzone space rock, come "Suave" è solo un soave saggio di chitarra, per sollecitare fantasie e avventure immaginate. Ogni elemento della natura vibra e prende vita in una gioiosa ed ebbra orgia di suoni frammentari quanto passionalmente (direi persino eroticamente) coesi, nell'asse "Attitude"-"The Elephant Song".
Una combinazione tra passato e futuro, una combinazione tra visioni eteree-paradisiache e bad trip da suicidio.



35007 [stickman, 1997]

I suoni sono duri e compatti, molto più condensati rispetto all'album precedente. La band è heavy e tossica. Se gli Helmet sembravano un trapano tra le membra, questi 35007 affondano al loro stesso modo, e con lo stesso risultato, ma con una lama riscaldata sul fuoco, che entra lenta e quando esce fa malissimo (vedi "Soul Machine", che parte tra eco e rimbombo e si chiude con un colpo di coda hardcore brutale). Ritmi petrosi, pezzi difficilmente digeribili. La band punta all'evoluzione dello space rock attaverso una graniticità ricercata e ricreata ad ogni costo (anche quando, come in "Short Sharp Left", la canzone in se meriterebbe tutt'altro trattamento). "Powertruth" è un po il simbolo di questa fase estremista (e un po zoticona), anche se nel complesso funziona sempre più di "Undo", che avanza lentamente come un animale in gabbia. Solo il lato sintetico lascia uno spiraglio aperto in questo abitacolo, in modo da lasciare entrare un po di sano gas di scarico. Tutto sa più di grunge che di freak. Più Soundgarden (vedi "Big Bore") che Pink Floyd. E rispetto alla lezione di Kyuss e Monster Magnet, sembra si siano fatti dei passi indietro. L'ingessatura va via decisamente quando l'acqua è alla gola per dirla con una metafora liquida, come il sound libero e scioltissimo dei 35007 quando in "66", che per certi versi è il meglio che si possa trovare in questo episodio, ma è anche il termine di paragone per le esperienze liquide che verranno a breve.



Sea Of Tranquillity [ Stickman, 2001]

Torna la figura-chiave del mare, presente già nel titolo, che di per se esprime contrasto con la devastazione e il terrore degli album precedenti. Un primo grande punto di rottura. Il mare torna nel moto ondoso dei 3 brani di questo ep, tra la schiuma delle onde che si posano sulla riva, la tempesta e momenti di bonaccia. Stoner psichedelico a palate, sapientemente organizzato e lasciato andare senza più incursioni violente ne distrazioni (voce... colpi di testa..). Il senso di coesione e maturità è forte, e ne sono esempio i tre brani, tanto diversi e tanto coerenti parte per parte al loro interno, tanto da risultare distinguibili anche nel loro essere complementari.
I conflitti (tra passato e futuro, e non solo) sono appianati, sublimati, in una musica che è riuscita a trascendere. Siamo già ben oltre la dimensione terrena.



Liquid [Stickman, 2002]

Già sotto l'aspetto tecnico sia "Sea Of Tranquillity" che "Liquid" segnano una fase molto più partecipata della carriera della band. Ormai il nuovo batterista è perfettamente integrato e della voce non se ne sente la mancanza nemmeno quando il minutaggio si estende ai quaranta minuti, divisi in soli quattro pezzi. "Liquid", ancora più tecnico e libero, nonchè più ridondante del precedente, insiste sulla regola della fluidità del suono, che qua non conosce ostacoli. Calme e serene dilatazioni, frizzanti di creatività che straripa, quando si tratta di variare infinite volte un tema attorno ad una ossatura che poi non esiste, o che magari è lasciata solo all'immaginazione di chi ascolta (finalmente l'ascoltatore è parte integrante, con la sua fantasia, del complesso di suoni dell'album). I 35007, in modo assolutamente scientifico, si prodigano per la sintesi estrema della chimica del brano informe perfetto, l'esplosione psych-stoner definitiva, viaggiando tra i diversi stadi della materia, dall'evaporazione al maremoto alla cristallizzazione, e l'umidità di entra pure nelle ossa, la respiri, è parte di te; musica che coinvolge e affascina ascolto dopo ascolto.



Phase V [Stickman, 2005]


Nel primo secolo dopo cristo, il filosofo cristiano Boezio diceva che la musica è matematica resa udibile. La band si innamora di questo motto. Infatti, alla matematica rimanda il nome stesso della band, che è un numero e allo stesso tempo simbolico. Ecco appunto, il simbolo. Si tratta dell'album più astratto e rarefatto dei Loose. Una collezione di suoni dell'altro mondo (nel senso che non sembrano umani ne terrestri) legati da concetti e percezioni extra-visive, tutte mentali, e da qui la scelta di fare musica per non vedenti, dalla copertina "tattile" a tutto il resto, la mancanza di veri titoli dei pezzi (indicati con numeri).
La tecnica e la tecnologia al servizio del suono il più possibile proiettato al futuro, ma senza poi scomodare arnesi che siano estranei al mondo del rock tradizionale, anzi, il paradosso è sempre quello, il risuscire a coniugare la trance post-industriale/astronomica-spaziale a strutture raffinatissime e sempre più evolute sotto l'aspetto compositivo (che raggiunge livelli eccelsi, praticamente divorando qualsiasci cosa fatta in passato dal gruppo).
"Liquid" proponeva una psichedelia analitica, spaccava il capello in quattro, mentre la quinta fase è la fase della sintesi totale, e al posto della ridondanza e da conferma di stile, c'è un gruppo-fantasma, che non ha bisogno di immagini, e che forse è già sciolto, ma dalla sua condizione di semi-detenzione in chissà quali sperduti luoghi nella memoria collettiva del rock, lancia onde che innalzano creste nell'acqua così alte da perdersi all'orizzonte, in sei brani intricati, complessi e roboanti, tra intuizioni sbalorditive ed ideone.










John

Earth

Quando parlo di Earth Parlo di Dylan Carlson, mente di questo progetto.
Ricordiamo gli Earth perchè sono stati artefici di un astrattismo musicale estremo, pura ripetizione, pura monotonia, pura dilatazione, nulla muta, tutto resta statico, prolungato, immobimente piantato senza smuoversi con il passare del tempo. Una musica malata che inverte i canoni del musicalmente interessante, trasformando una cazzata, una sbavatura, un rumore di fondo, una distorsione andata a vuoto, nel vero e proprio oggetto della canzone (che non è canzone) e del disco (che è non è disco) che sarà fatto da una musica (che non è musica) consistente nel puro e semplice ingigantimento di frattaglie eliminabili in consizioni normali (e qua di normale non c'è niente). Provocazione? no, non ce n'è bisogno, perchè tanto non c'è proprio nulla da comunicare: è il contorno fatto figura, come se al posto di un uomo con un neo in faccia vedessi un neo con un uomo appeso, e quindi per comodità puoi anche eliminare l'uomo e goderti il neo come se fosse l'unico essere intelligente della galassia.

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Extra-capsular Extraction [Sub Pop,1991]
Un ammasso di riff sabbathiani ripetuti ed estremamente rallentati fino alla noia.
Il debutto degli Earth non è un album di avanguardia ma solo un grosso esperimento del tipo: "e se provassimo a fare un album di 3 brani per 33 minuti per vedere quanto può essere ripetitivo un essere umano?"
"A Bureaucratic Desire for Revenge" è una piccola perla di sadismo sonoro divisa in 2 parti, pezzi grezzi in confronto allo stile che la band maturerà poco dopo, il primo è anche cantato verso la fine, anche se "cantato" è una parola grossa, sarebbe meglio dire che è canticchiato, con delle urla scomposte di sottofondo.
La grezzaggine e la non-maturità del primo disco, fa di esso l'album più convenzionale della band, pesantissimo ma accessibile, consigliato a chi gradisce il doom atipico dei Melvins (per certi versi estremo, per certi versi minimal, per certi versi non è nemmeno doom).

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Earth 2: Special Low Frequencies[Sub Pop,1992]
Niente batteria. voce?nemmeno se la paghi. brani sempre ultralenti, sempre sabbathiani, sempre 3 brani, ma con una durata superiore ed un tasso di droga nel sangue molto più alto, o meglio, con un tasso di sangue nelle vene molto più basso. "Seven Angels" è uno squarcio nella gola di un tubercolotico, una inondazione di liquami e merda in salsa doom, la monotonia che si fa incubo, la musica che diventa oppressione sottoforma di rumore bestiale, condito da mille sfumature (come colpi di tosse e altri particolari che non sai mai se siano davvero presenti nel pezzo o se sei tu che ormai sei partito mentalmente presso altri lidi). "Like God And Faceted" è una mezzora di vibrazioni assordanti e ipnotiche, così estremo da sembrare disumano. abbiamo una specie di climax ascendente che parte da un brano cattivo e crudele come il primo, fino alla totale alienazione nel terzo. I pezzi presi singolarmente, sono completamente statici, nulla si muove, nulla cambia, nulla si evolve, è tutta una salmastra esposizione a radiazioni di non-musica. è l'alba del drone.

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Phase 3: Thrones and Dominions[Sub Pop,1995]
Una bimba con la pasta in mano. ecco cosa c'è in copertina. l'innocenza dell'infanzia e... la pasta in mano. innocenza/droga primo ossimoro-sfida dell'album, che come tutti quelli degli Earth non è altro che un gioco con l'ascoltatore, un giochetto per vedere fino a che punto sa resistere. qua però gli Earth sono più buoni e clementi:
1. ci spiegano nella copertina cosa bisogna fare prima di ascoltare gli album, ma naturalmente io mi dissocio perchè queste cose non si fanno, ma se le fate non me ne frega nulla, l'importante è che non lo dichiariate/pubblicizziate e che non prendiate la mia come istigazione all'impastaggio.
2. ci offrono una manciata di canzoni più brevi e molto più varie all'interno, quindi anche se la formula vibrazione-distorsione è sempre la stessa, qua tutto appare più accessibile fresco sempre tenendo presente che abbiamo a che fare con dei malati di mente, quindi i loro canoni dell'accessbile non sono quelli della gente normale.
L'iniziale "Harvey" è un breve pezzo pesantissimo ma snello, un susseguirsi di riffoni al confine col metal; poi "Tibetian Quaalues" parte come partirebbe un brano doom metal, poi dispiega la sua portata devastante in un finale vibrato molto rarefatto, quasi psichedelico. "Lullaby" è un altro pezzo infernale, che sembra preso dalle origini della carriera della band, doom-drone in soli 3 minuti di sudore. "Song 4" aggiunge anche delle sfumature acustiche ai riff più umani di questo disco, che si aprono alla melodia (ed alla batteria) in "Site Specific", una premonizione di gran parte dell'attuale post rock, post core, sludge e minchie varie, tutto in salsa drone... un drone che è solo un elemento del nuovo concetto artistico della band, finalmente più comprensibile e finalmente più aperta ai mutamenti. La title track è una dozzina di minuti di fruscio, "Thrones And Dominions" è un crescendo drone-ambient leggerissimo che si espande gradatamente fino a deformarsi in un assolo travolgente come un ciclone, sempre più crudele, sempre più distorto. "Song 6" assomiglia proprio ad una canzone... a questo punto stuporeeeee!!! non crediamo alle nostre orecchie! questi Earth son così pazzi che ora piazzano persino una canzone in questo carico di pazzie... il pezzo è giocato sull'ossimoro (come la copertina) ultradistorto/acustico, è molto breve ma piacevole, tanto per chiudere con una nota di colore questo grigio martirio sonoro che ci assale da un'oretta... e a quel punto capiamo anche l'altro ossimoro rosso/grigio in copertina: quest'album non è altro che una costante altalena tra normalità ed anormalità, tra ciò che puoi aspettarti da una band alternativa e ciò che non ti aspetteresti mai da un essere umano.

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Sunn Amps and Smashed Guitars [Sub Pop,1995 e No Quarter Records,2001]
Ripubblicato nel 2001 impreziosito da un brano contenente un cameo di Kurt Cobain (sponsor ufficiale della band), "Divine and Bright", forse il pezzo meno riuscito dell'album....ma che per molti vale l'acquisto.
Frattaglie. C'è materiale live, roba inedita, tutto buttato la quasi a caso, eppure c'è il brano più Earthoso degli Earth, un assemblato di roba immonda e orrida: "Ripped On Fascist Ideas", 31 minuti di goduria drone (e per giunta condito da una miriade di rumori di contorno, che in realtà sono le prelibatezze di tutto il disco). Musica d'avanguardia, anzi, NON-musica di avanguardia, ma ad essere sincero, trovo questo brano di una bellezza sconvolgente. Da ascoltare rigorosamente tutto d'un fiato. Se no siete ghei. Naturalmente per capirlo e apprezzarlo devi entrare nei canoni aberrati (come dicevo in cima) della Earth-philosophy. Dopo il drone del primo pezzo, arriva un trittico malato molto più convenzionale, con tanto di batteria, anche se sempre di musica ripetitiva si tratta: un riff ultradilatato e ripetuto. Doom estremo e grezzo, voce assente. Alla fine c'è l'oscuro duetto con Kurt, 3 minuti di musica distorta e malinconica che stona di brutto con gli altri brani.

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Pentastar: in The Style of Demons [Sub Pop,1997]
Ci sono 3 ipotesi:
1. Ora abbiamo degli Earth diversi, un'altro gruppo, e il lavoro precedente non era altro che un'opera di transizione.
2. Questi sono i veri Earth, e quelli delle origini erano solo un brutto scherzo, quindi l'album precedente era giusto il giro di riscaldamento.
3. Chi sono gli Earth non lo capiremo mai, potremo solo limitarci a gradire un album o a buttarne via un altro, senza farci problemi, perchè gli Earth stessi non si fanno problemi prima di far uscire un disco con più di un'ora di vibrazioni.
A prescindere da queste cazzate, vediamo cosa si inventano in questo terzo album:
A) invenzione della BAND--> per la prima volta gli Earth si comportano come un gruppo, ove invece negli album precedenti, era tutto frutto della mente malata di Dylan Carlson. La band è composta da Dylan Carlson (chitarra, voce, piano, vibrafono e anche batteria,credo); Ian Dickson (chitarra e basso); Sean McElligot(chitarra)
e Michael Deming (organo). Notate come vengono fuori stabilmente strumenti nuovi (nuovi per la band) e come ci sia una sovrabbondanza di chitarre.... e questo fa già capire che qualcosa è cambiato (in realtà è cambiato tutto).
B) invenzione della CANZONE--> per la prima volta gli Earth fanno un album di canzoni, cioè di pezzi rock tradizionali(persino cantati in modo regolare), anche se con le dovute eccezioni.
Nel 1997 si apre per la band la strada della psichedelia pesante, e per farlo, decidono di suonare brani rock heavy e appunto psichedelici dove occorre, incorniciando un album che poggia su 2 pezzi heavy (quasi sabbathiani) strumentali, infatti ad aprire c'è "introduction"(più che un intro è una lunga dichiarazione di intenti), con tanto di coda d' organo sul finale e a chiudere c'è "Coda Maestoso In F[flat] Minor" con un epico assolo di Carlson, proprio come accade con le vere canzoni rock. Tra i 2 brani c'è di tutto, in particolare la passione per Hendrix, assorbito e risputato in una versione sulfurea e con un cantato asettico e smorto, come nella jam devastante di "High Command", o anche coverizzato come accade nella stupenda versione di "Peace In Mississippi". La nuova formula rock degli Earth si esalta nei 3 minuti e mezzo di "Tallahassee"(cantata e suonata alla maniera di Sky Valley), dove l'anima blues di Carlson trova una strada tradizionale per emergere, in linea con certe tendenze di modernizzazione-appesantimento del sessanta/settantiano, e lo fa anche con personalità, quando richiama certi suoni dell'album precedente, a metà tra post rock e residui drone, ma rimescolando le carte in modo da fare il verso a un motivetto orientaleggiante. "Crooked Axis For String Quartet" è un viaggetto ambient in cui non si cammina, ma si fluttua; un persorso i cui soli ostacoli provengono dal nostro coropo, musica per la mente (ma ottenuta in modo diametralmente opposto al dronato dei primi 2 album). "Crooked.." è l'unica eccezione in un materico e corporeo, in opposizione ad album come Earth 2, che era concepito per la mente, e suonato con la mente più che con il corpo nella sua interezza, contrariamente a quanto avviene in Pentastar, disco fatto col corpo e sudato dalla testa ai piedi, sempre con le dovute eccezioni, come quella vista prima, e l'effetto-campana-a-morte della maca
bra "Sonar And Depth Charge".


Hex: Or Printing in the Infernal Method[Southern Lord,2005]
FORMAZIONE: Carlson (chitarre), John Schuller(basso), Dan Tyack (lap e pedal steel guitar), Steve Moore (trombone e campane tubolari) ed Adrienne Davis (batteria e percussioni).
Introduco in questo modo il disco, tanto per mostrare come già dalla formazione possiamo capire che dopo 8 anni dall'ultimo disco ufficiale, gli Earth hanno da dire qualcosa di diverso, qualcosa che necessita di nuovi strumenti e nuovi volti, naturalmente dietro questa nuova macchina di morte c'è sempre il genio Carlson
(si, genio, ora lo possiamo dire), che forse può darci un aiuto per rispondere al vecchio interrogativo: gli Earth di "2" e "Phase 3" giocavano o facevano sul serio? e "Pentastar" come lo dobbiamo interpretare? dopo 8 anni, visto che la strada acida e di hendrixismo anomalo del precedente lavoro sembra essere stata abbandonata devo concludere che non era quello l'inizio di un nuovo corso per gli Earth, ma semplicemente uno dei loro tanti capricci musicali, ma i capricci se li possono permettere solo i bambini, i ricconi o i geni, e in questo caso probabilmente si tratta di genio.
"Hex" è un album strumentale, fatto da minusuite di media lunghezza, che si avvale di strumenti tradizionali, come tradizionale è in un certo senso la musica proposta, o meglio, ad essere proposto è un costante contrasto tra estremismo e astrattismo sonoro con il tradizionalismo di certo roots rock che sembra assorbito nella nuova veste della band. Heavy Psych è il termine più adatto per indicare il concetto, anche se detto così sembra una cosa vuota, una etichetta applicabile a 200000band, ma che forse può risultare più chiara man mano che ascoltiamo i brani e ci addentriamo nel mondo in parte oscuro e tetro e in parte desertico di Carlson. Non c'è il rock pompato dell'album precedente, ma un lividissimo suono allungato, in parte ambientale ("The Dry Lake") e con sfumature Morriconiane e desert rock (nella vera accezione del termine eh) finora inedite per la band, anche quando strizzava l'occhio allo stoner. "Hex" è la trasposizione in musica di un momento riflessivo di un film di Sergio Leone, la trasformazione in musica delle sue attese. Il vento accarezza il deserto in "Mirage", e inizia il viaggio: "Land Of Some Other Order" mostra il nuovo corso stilistico della band, vicino a certo post rock di aspirazione e doom a la Mogwai di Young Team e alla psichedelia dei Natas di Ciudad, un brano contemplativo che fa da specchio per un album altrettanto contemplativo e mentale come lo erano i primi Earth, ma esposto in modo diverso, innanzitutto perchè il drone in se può considerarsi scomparso, a meno che non lo intendiamo in una accezione latissima e concettuale (quindi non tecnica). "The Dire And Ever Circling Wolves" propone un sound più ricco, pur nella semplicità che caratterizza tutto l'album, strati di chitarre che si adagiano una sull'altra, leggera ed essenziale sullo sfondo c'è la batteria, siamo vicini ad atmosfere tipiche di Neil Young dal vivo, a la Cortez The Killer, anche se diversamente dalla musica di Neil, qua non c'è nessuno che canta, e tutto appare pressocchè statico, ecco un altro elemento che differenzia gli ultimi Earth dal post rock dei Mogwai, al quale si avvicina di più un pezzo come "Lens Of Uncertified Night". "An Inquest Concerning Teeth"(il brano più desertico dell'album) sembra una versione dilatatissima dei Calexico di Black Light con 2 o tre pere di troppo. "Railford" ci riporta in territori heavy, con quel suo richiamo solenne nell'introduzione, che apre un trascinante cammino sotto il sole cocente, fino alla totale perdita dei sensi; tutto è lentissimo, la lentezza è elogiata come valore massimo e trascendentale, fino ad acquisire una portata mistica nel crescendo del brano (questo è veramente dinamico come gli Earth non lo sono stati mai) che esplode in disegni chitarristici che (almeno a me) fanno emozionare (nel vero senso della parola).
Un album insomma che si gioca su chiaroscuri e contrapposizioni non nette ma sfumate, come comune a gran parte della musica pesante&d'avanguardia odierna (dai Negura Bunget agli Agalloch agli ultimi Neurosis), un album TOTALE, che riesce ad unire corpo (coinvolto dagli Earth di metà anni 90) e mente (coinvolta dagli Earth di inizio anni 90), senza schizzofrenia e senza esibizionismi solipsisti di un chitarrista reputato un santone, ma con quella capacità di farti viaggiare che hanno solo i grandi artisti.

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Living In The Gleam Of An Unsheathed Sword[Southern Lord,2005]
Soli 2 brani(il primo di 15 minuti ed il secondo di 59), per un album a tiratura limitatissima(1500 copie), e registrato live(non è facile accorgersene).
Il capriccio vuole che si torni ad un classico drone(il primo brano, "Dissolution III") misto a doom estremo con tanto di batteria suonata sul serio(il secondo brano "Living In The Gleam") come in "Sunn Amps and Smashed Guitars", guarda caso (?) anche questo registrato liv
e.


John

lunedì 29 settembre 2008

Presentazione

Attivo da oltre tre anni nel circuito forumfree (che conta di oltre 300 mila forum di vario genere) è ormai una realtà attivissima nel campo musicale, secondo le statistiche sarebbe al primo posto tra i forum musicali pluritematici. Che significa "pluritematico"? Molto semplice: non avere un genere di riferimento, ma trattare la musica a 360° gradi, passando da un genere ad un altro, senza escludere alcun sottogenere, ma realizzando un foro dialettico in cui la discussione sia sempre viva ed esaustiva, cercando di fornire il maggior numero di informazioni, pareri, punti di vista possibili. Ben undici sezioni per analizzare ogni artista, gruppo, genere, etichetta; contest musicali in cui si affrontano in sfida artisti, gruppi e dischi; una sezione dedicata all'attualità, per discutere di ciò che accade intorno a noi, e poi cinema, arte, letteratura, fotografia, insomma: Musica e non solo. Ma quello che contraddistingue R&D non è l' approfondimento nei topic o il numero dei gruppi affrontati. E' l' atmosfera che si respira: un luogo nello spazio web in cui chiunque può discutere del proprio artista preferito, rispettando naturalmente l' opinione altrui, senza che via siano gli INTELLETTUALI o i professoroni, ci sono solo tanti APPASSIONATI, che parlano di musica (e non solo) con tono rilassato e mai competitivo o didascalico. Siamo felici di accogliere ogni nuovo iscritto, senza che vi sia MAI UNA MAFIA, quindi non c' è e mai ci sarà nonnismo tra gli utenti.... anzi, noi tutti COLLABORIAMO INSIEME, avvicinando il più possibile i forummari, indipendentemente dai "gradi". Con più di cinquecento utenti ed oltre 7500 discussioni Rock e dintorni è pronto a spalancarvi le porte… Prego, entrate. Mettetevi comodi e godetevi il blog.

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