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sabato 7 febbraio 2009

Radiohead - Hail To The Thief (2003)



Anno: 2003
Etichetta: Capitol Records

Line Up:
Colin Greenwood – bass guitar, string synth, sampler
Jonny Greenwood – guitar, analogue systems, ondes Martenot, laptop, piano, glockenspiel
Ed O'Brien – guitar, effects, backing vocals
Phil Selway – drums, percussion, backing vocals
Thom Yorke – vocals, lyrics, guitar, piano, laptop

Tracklist:
1. 2+2=5
2. Sit down, stand up
3. Sail to the moon
4. Backdrifts
5. Go to sleep
6. Where i end and you begin
7. We suck young blood
8. The gloaming
9. There there
10. I will
11. A punch-up at the wedding
12. Myxomatosis
13. Scatterbrain
14. A wolf at the door


are you hungry?
are you sick?
are you begging for a break?

are you sweet?
are you fresh?
are you strung up by the wrists?

Un armamentario di domande che non si esaurisce certo qui. Ci si deve immergere per trovarne ancora, lasciarsi infettare dai dubbi e perplessità, che vagano erranti in 14 porte di vetro, puoi guardare nelle loro inquietudini, e loro nelle tue.
Dimenticate il titolo. Il ragionamento è molto più affascinante del mero additar ad un presidente delle colpe ( ed è anche riduttivo, un disco è un opera immortale, che prosegue negli anni, non può dipendere solo da una realtà e da una circostanza, sarebbe banale) , la titletrack sarebbe dovuta essere la numero otto: The Gloaming. Il crepuscolo, l'oscurità che invade come una disgrazia, l'umanità. Come una sorta di carestia medievale, la paura di essere catturati, viene sostituita a quella di poter essere impossessati. Sostituiti rimanendo però al proprio posto. Plagiati dall'informazione di massa, con idee inculcate , passate nell'inconscio sottobanco tra format e telegiornali. Non è Bush il vero ladro, ma esso. Chi tenta di infilarsi nel tuo corpo come fosse un vestito pensante.

This the gloaming. ..
This the gloaming. ..
This the gloaming. ..

Non tornano appunto i conti, nel fare contraddittorio degli eventi che vengon mostrati. Musicalmente invece è la chiusura del cerchio. Un disco che completa l'evoluzione stilistica della band nella sua completezza perfetta, equilibrando le carte giocate fino ad allora (basti pensare all'ottimo uso dell'elettronica in “Backdrift" che richiama “like Spinning Plates” di Amnesiac nei reverse, modo geniale di incatenare i due pezzi ) . L'opener ne è la conferma , certamente l'episodio più rock dei due precedenti album, implosa alla perfezione , pulsante, narrante di quel Lukewarm (l'ignavio Dantesco) che non agisce, ed è questo il suo peccato.Sarebbe dunque il caso di “togliere le ragnatele dal cielo” , fa notar Tom nel su excursus pianistico in “Sail To The Moon” ,leggiadra e atmosferica nei suoi synt sognanti.

i sail to the moon
i spoke too soon
and fall to the sun

Eppure il cuore del brano è fortemente speranzoso, pacato e cullante. A tratti squisitamente ipnotico è il mood del disco, pensando anche “Sit Down, Stand Up “ nel suo fare quasi a mò di una litania.introdotta da una frase significativa del Book Of Common Prayer .
Go To Sleep” oltre ad avere un intro un po' pearljammiano, dimostra il potenziale del collettivo anche in sonorità utilizzate una decina di anni prima , pregevole gioiellino elettroacustico che avrebbe impreziosito anche The Bends. L'energia non manca nell'emozioni degli ascolti, basti pensare al tappeto ritmico dell'efficace singolo “There There” , uno dei più acclamati della band. Linea melodica un po' anni 70's ben sorretta da sovraincisioni e l'eterea chitarra in accordi leggeri. Uno schema che è la chiave del successo anche in “ Scatterbrain” , posta a quasi fine album , paradossalmente abbraccia “2+2=5” . curioso come Tom riesca dare volontariamente alle stonature elggere un loro grado interpretativo del pezzo. Da non accorgersene. l'uomo colpito dal fulmine è metafora di un sovraccarico di informazioni (come si è già fatto riferimento in altre sezioni del disco ),. Stan assimilando le nostre menti, prosiugandoci, è sarcastica la band in “We Suck Young Blood” un silmil gospel malato, da propaganda elettorale, a finale lisergico e sofferente in quel lamento finale. Cinismo a spogliar le truffe ingannevoli che si nascondono anche nelle cosiddette campagne umanitarie, su tutte il “Drop The Debt” ( riferito al debito dei paesi del terzo mondo) , mosse da politici solo per tornaconto sull'immagine in un contesto plasticoso e temibile “Myxomatosis” altri non è appunto, che una malattia degli animali, ed è graffiante il basso che ne rappresenta la rabbia in un pezzo martellante quanto atipico nella loro discografia .
Ma sorprende come in realtà, il dolore misto ad ira venga trasmesso in un brano quasi angelico e catartico come “ I Will”, un soffio di vento, quasi un intermezzo intensissimo, sciolto in un cantato da pelle d'oca.

I will
lay me down
in a bunker
under the ground
I won't let this happen to my children
meet the real one coming out of my shell

Un vortice di negatività prosegue anche “ A Punchup At A Wedding” , nonostante la cadenza black music ai confini col soul. Suggerisce un outro in grande stile, altra gemma dell'album è “A Wolf At The Door” , una vivisezione del jazz (shuffle di batteria, elementi corali, mellotron e organo a canne ) dipendenti dalle passeggiate sul pentagramma di Greenwood , Tom opta per un cantato interpretativo, una via di mezzo tra lo swing,lo spoken e un rap decellerato. E il Phatos ne ringrazia sentitamente. Tra liriche da interpretare. Così come la copertina, bizzarra nella sua essenzialità, soprattutto nell'edizione limitata, presentata come una mappa pieghevole, frasi e slogan al posto delle costruzioni in un contorto stile pubblicitario. . A mille usi interpretativi, e non che Yorke non ci avesse avvertito in uno dei pezzi più belli del disco...


there's a gap between
there's a gap where we meet
where i end and you begin


E quando meno te l'aspetti, ci si rituffa nell'ombra.

i can watch and can't take part

Gidan Razorblade

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giovedì 5 febbraio 2009

R.E.M. - Monster (1994)



Anno: 1994
Etichetta: Warner

Tracklist:
1.What's The Frequency Kenneth?
2.Crush WIth Eyeliner
3.King Of Comedy
4.I Don't Sleep I Dream
5.Star 69
6.Tongue
7.Strange Currencies
8.Bang And Blame
9.I Took Your Name
10.Let Me In
11.Circus Envy
12.You

Un album particolare questo "Monster", che più di ogni altra uscita degli REM è riuscito a spaccare il pubblico vecchio e nuovo.

TESI #1
Monster è L'album delle distorsioni, del riverbero, della pesantezza, della claustrofobica chiusura in se stessi, è un album perverso e pieno di pensieri scomodi e mezze confessioni inconfessabili, un disco confuso ed agitato, che risente di episodi che poi espisodi non sono, come la morte di Kurt Cobain. Gli REM vengono fuori dalla forma opprimente di Automatic For The People, che aveva ingessato la loro anima rock, ne aveva mediato e diluito il messaggio in una serie di accidenti e corpi estranei, mentre Monster è il loro lavoro più pesante, non il più duro e aspro, ma sicuramente il più pesante, fondamentalmente lento ma dissonante, difficile e ruvido, una pietra miliare del rock duro anni novanta. Brano emblematico: "What's The Frequency, Kenneth?", che è in pratica una dichiarazione di guerra di un Peter Buck che prende la rincorsa e fa il suo grande ritorno a suonare ad alto volume, e spalanca il disco con un blues grezzo e distorto, un macigno. Farà furore dal vivo ed incarnerà il gusto delle nuove generazioni, oltre il rock "aldulto" dei due album precedenti, oltre l'attivismo dell'asse Document-Green ed oltre il post-punk-folk underground della prima fase. "King Of Comedy" è la prova di come non ci sia un semplice appiattimento alla forma canzone grunge, perchè oltre alla chitarra tagliente e funky che non fa altro che frustare in modo sincopato, c'è un Bill Berry che costruisce ritmiche squadrate, quasi dance, un po dalle parti degli U2 dei primi anni novanta, con tanto di cantato che rasenta l'hip hop.

TESI #2
Monster non è altro che il prodotto facile di un momento di facile vendita di certe immagini (appetibili ai teenager di quella generazione) di certi testi (non impegnati, non romantici, ma sempre angusti e perversi, come quelli dei Nirvana) e certi suoni (non adulti come sembrava nella piega che stava prendendo la carriera della band, ma terribilmente somiglianti a quelli in voga a metà anni novanta). Un passo falso insomma, che infatti fu cassato senza rinvio dai critici, diversamente dall'album che lo seguirà, sicuramente più sperimentale, ma che diversamente questo non avrà lo stesso appeal presso le masse (e questa è la prova del nove, che conferma la suddetta tesi). L'ospitalità data a Thruston Moore, chitarrista dei Sonic Youth, in "Crush With Eyeliner" è la prova dei salti mortali che la band fa per sembrare alternativa a tutti i costi, e che per appesantire e rincarare la dose massiccia di distorsioni ha bisogno di doppiare il baccano di Peter Buck, tra l'altro supportando il peggior Michael Stipe del decennio, in questo pezzo, completamente prosaico e quasi irriconoscibile, preso ad apparire tormentato più che ad essere quel grande interprete che è sempre stato. Una prestazione vocale blanda insomma, sommaria, figlia di un dover-essere sbilenco più che di una coscienza rock vera e propria. Le pulsioni sessuali di "Star 69" si traducono di fatto in un pezzo rock stridente e tirato al massimo, un crescendo che si condensa e resta costante in tutti i tre minuti e poco più, scopre tutte le carte ben presto e non si sviluppa drammaticamente come i vecchi pezzi della band, non c'è sentimento, non c'è una apprezzabile cura scenica, ma solo una violenta sovrapposizione di immagini e musica dalle tinte molto forti. La voce di stipe è così effettata ed i testi, così trascurabili, che non si capisce nulla e non si vuol fare capire nulla, le parole di increspano e vengono ripetute fino alla nausea per sopperire ad un vuoto creativo che, al dilà della ripresa rock, ha ben poco altro per riempire tre minuti.

PENSO CHE LA REALTà SIA UN'ALTRA
Fermo restando il fatto che non si tratta di un album fitto di capolavori, e fermo restando che non si discute la presenza di limiti della proposta di Monster e della facilità con cui poteva essere trasmesso in radio alla sua uscita, si deve anche ammettere che la seconda tesi è di per se troppo severa, per diversi motivi:
1) gli REM non sono di certo gli ultimi arrivati,e c'erano prima della generazione di Seattle, quindi il loro ritorno nel panorama alternativo non è in realtà un ritorno vero e proprio, ma una sintesi, oppure una pura e semplice esplicitazione di quanto nell'album precedente era ermeticamente rinchiuso e sublimato in forme finemente pop ma anche limitative per l'estro e per l'energia degli REM.
2) parte dei pezzi che troviamo in Monster non è altro che uno scarto delle sessions precedenti, quindi in realtà questo non sarebbe l'esatto opposto di Automatic For The People, ma anzi, una sua conseguenza, l'altra faccia di una stessa medaglia. Monster è la valvola di sfogo per le canzoni impresentabili in Automatic For The People, una valvola di sfogo sia creativa che umana, che per ovvie ragioni adesso doveva essere azionata, era il momento di uscire, venire fuori, e in questo senso la retorica dell'avance sessuale non è altro che una metafora della forza libidinosa e liberatoria del rock che indaga le chiusure e le cesure del soggetto rispetto al resto del mondo, per poi prenderle e rigirarle in vere e proprie esplosioni, come polluzioni notturne, perchè poi Monster è un album veramente notturno, come il precedente (primo punto di somiglianza), e non è che sia poi così leggero e scrostato, anzi, quelle che prima erano le pesantezze dell'arrangiamento d'archi ora sono convertite i pesantezze portate dalle distorsioni di Peter Buck e Mike Mills (secondo punto di somiglianza). Qualitativamente non sono più scadenti i singoli pezzi, sono solo distanti dal sound rigoroso e classicheggiante di Automatic For The People, ma il nocciolo duro che vi sta dietro è lo stesso, e in qualche caso, la differenza delle proposte si assottiglia. Se prendiamo "Tongue", per esempio, vediamo che si tratta di un soul rock singolare e pieno di fascino, Stipe effettivamente poco riconoscibile, tutto in falsetto, perchè questo per Stipe voleva essere un album di vacanza, un album di eccezioni e di uscita dagli schemi del suo consueto suolo nella band. Per quasi tutto il pezzo è tutto incentrato su voce e organo, come su Automatic For The People. Poi nel finale c'è un Buck solista sporchissimo, ma neanche questo è una novità rispetto ad Automatic For The People. Il brano sembra solo più atipico e meno rimaneggiato, istintivo, con poca cura e attenzioni, sembra gettato su disco una notte, quasi di nascosto. "Strange Currencies" riprende in modo ancora più netto, il passato, facendo il verso ad "Everibody Hurts".
3) è pur vero che ciò che domina l'album è un vortice di torbide pulsioni e sensazioni, ma una "I Don't Sleep, I Dream", anche se assorbe le istanze del rock di Touch Me, I'M Sick di Mudhoneyiana memoria, bisogna ammettere che innanzitutto le visioni distorte e materialistiche sul sesso c'erano già nella più che allusiva "Star me kitten" contenuta nell'album precedente, allora forse non c'è tutto questo baratro tra Automatic For The People e Monster. Inoltre, il pezzo è tutt'altro che di facile assimilazione allo stile grunge (se è mai esistito uno stile grunge), perchè è elettrico ma suonato con delicatezza, delle avances sessuali in punta di piedi, un tappeto che si srotola lentamente in una cantilena sussurrata e un po pregata in falsetto, in cui si inserisce nella struttura molto Neilyounghiana, un pianoforte che impreziosisce e capovolge il tutto.

INCONTINENZA E CONFUSIONE
Se Automatic For The People è l'album del contegno, Monster è un disco incontenibile, sia nei suoni, sia nelle istanze che ne vengono fuori, e alla fine questo è rappresentato anche a livello compisitivo, poichè ora c'è un pezzo energico e possente come "Bang And Blame", emblema del maggior dinamismo di Monster, tutta trascinata da Mike Mills, con il suo basso carichissimo, lanciato come una zappa nel terreno, una canzone che non avrebbero mai potuto comporre gli REM del passato e neanche (forse) quelli del futuro. Invece di sprofondare lentamente, come i brani di Automatic For The People, questi bruciano di vita, pompano sangue, sputano fuoco, suonano assolutamente attuali e questo è già un pregio enorme, senza tra l'altro essere mai una copia dei Nirvana o di altri gruppi che spopolavano. Questa è la linea, fortemente chitarristica, di "I Took Your Name", che gioca con l'identità, confonde le carte, parla di confusione e di crisi, come confusa e raggelata sotto false spoglie è la voce di Stipe, ancora intento a giocare a nascondino, sotto i giochi pirotecnici di Buck che fa letteralmente esplodere la sua chitarra, tra suoni spaziali e simulazioni d'incendio.
"Let Me In" è un intenso ed ermetico inno rock privo di batteria ma che poggia su un organo e su un accordo di Buck. Un brano cinematografico, introspettivo, cantato come faceva il Micheal Stipe che tutti conoscevamo, ma qua l'interpretazione si poggia su una ventata di decibel che si pongono a contrasto, un contrappeso di distorsioni, come le volute sbavature al confine col noise di "Circus Envy", una motosega schiantata contro i timpani. La tempesta viene raccolta ad imbuto e riversata nel pezzo che meglio sintetizza il versante melodico e sentimentale a quello più aggressivo e palpitante di brividi rock, "You", ancora un pezzo avente ad oggetto le relazioni di coppia colte da mille contraddizioni e muraglie di cose dette e non dette, segreti che non possono essere svelati e verità che svaniscono nell'illusione e nella confusione, come tutto il resto, infondo.

John

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mercoledì 4 febbraio 2009

R.E.M. - Automatic For The People (1992)


Anno: 1992
Etichetta: Warner Bros

Line Up:
Michael Stipe – voce
Peter Buck – chitarra
Mike Mills – basso
Bill Berry – batteria

Tracklist:
1. Drive
2. Try not to breathe
3. The sidewinder sleeps tonite
4. Everybody hurts
5. New Orleans instrumental no.1
6. Sweetness follows
7. Monty got a raw deal
8. Ignoreland
9. Star me kitten
10. Man on the moon
11. Nightswimming
12. Find the river

Ho sempre ritenuto Automatic For The People uno degli album più heavy della storia. intendiamoci, per heavy non intendo "rumorosi", perchè è chiaro che non è quella la pesantezza che intendo, ma voglio sottolineare l'intensità e la potenza di questa collezione di pezzi, uno più sofferto dell'altro, tutti legati da un alone di freddezza-calore che contrappone una intimità piena di dissidio a una linearità formale invidiabile, che poi è stata (e resta) uno degli ideali di songwriting rock d'autore (scusate l'ossimoro, ma è storia questa) più riusciti, più sentiti, più copiati, e più tipici del nostro tempo.
Gli REM sono ora distanti dallo spartano bagno di rigore e sentimento delle origini, passato ormai il periodo "indipendente", e rotto il ghiaccio col mondo dei media (passati sotto major con il "verde" e sempreverde "Green") e dei verdoni (il successone di "Out Of Time" era ancora vicinisismo), il garage rock, il folk e le spruzzate post punk vengono lasciate alle spalle, e se in passato si guardava spesso ai Byrds e a Bob Dylan, ora il fine ultimo dell'opera compositiva degli REM è una ballata melo-malinconica dai toni orchestrali (attenzione perchè le sovraincisioni orchestrali sono di John Paul Jones... ricordate i Led Zeppelin?), come mettere un abito da sera ad una puttana tossica presa dalla peggior bettola d'america, e il risultato è la miglior educolorazione della Generazione X che sia mai stata realizzata. I temi sono quelli della generazione di cui si fanno padri putativi (o cugini più grandi), ma i toni sono già maturi e freddi, nerissimi, non meno dei colleghi più sbilanciati, ma organizzati in modo classico-drammatico, e quindi il risultato è l'imperturbabilità e la fissità di uno sguardo trasformato in musica. In questo senso l' educolorante di cui parlavo prima, non è un modo per dissimulare questo o quel contenuto, ma una chiave per rendere ancora più evidente la grossa finzione che c'è nella vita di tutti i giorni, l'inerzia, l'incomunicabilità, l'impossibilità di movimento, l'incapacità di decidere e di schiodarsi dalla propria situazione, e di uscire dal proprio mondo. Tutto galleggia e basta.
Ovviamente sotto un punto di vista opposto, se è vero che il verde di "Green" era il colore dei dollari, e "Out Of Time" si getta a braccia aperte sul mercato, questo "Automatic For The People" non è altro che l'imborghesimento che arriva fin dentro il nucleo dell'emotività della band, anche oltre i ritornelli vincenti del disco precedente. Se non che anche gli stessi REM anche questa volta non riservano battute sulla loro popolarità e sull'impatto col pubblico di massa (e relative contraddizioni con fan di lunga data), infatti "...For the people" sdrammatizza e mette le mani avanti sin dal titolo.
La produzione è in pompa magna, e in pompa magna sono gli arrangiamenti, alla faccia del "Murmur", come in "Out Of Time", solo che in quest'ultimo la stratificazione di strumenti era una festa, qua invece è un'orchestra che suona mentre il Titanic affonda, ed è così che si presenta il crescendo di "Drive", che poi non cresce mica, resta sospesa tra soste e ripartenze, Buck gioca a nascondino e a fare il camaleonte, per poi venir fuori con un colpo di coda nel bridge, proprio quando gli archi arrivano al momento di climax drammatico più alto. In realtà il pezzo è sull'immobilismo. Si intitola "Drive" ma parla di cose che non si muovono e non hanno nessun tipo di impulso dal mondo. A posteriori, poteva essere una gran bella soundtrack per "Ecce Bombo" di Nanni Moretti, ossia quel film-acquario dove tutti annunciano (o abbozzano) timidi programmi, per poi nemmeno provare a far niente, e si bloccano nel guardare la realtà come fosse un quadro, una cosa che non sppartiene a chi guarda, e alla fine le persone di guardano come fossero reciprocamente appiattiti al muro e incorniciati.
Il tema della morte, del tempo che passa, del salto degli stadi della propria vita diventa nodale in una delle canzoni manifesto del disco, nonchè la mia preferita, "Try To Not Breath", se non altro per le insuperabili armonie vocali dell'asse Stipe - Mills, con Buck che esce allo scoperto con una delle sue partiture acustiche da lacrimazione facile, e il risultato è una ballata malinconica sull'inabissamento. C'è un uomo anziano che non vuole più essere di ingombro per un mondo che lo fa sentire superfluo e disadattato. Ma il tema della canzone non è quello dell'emarginazione,e se è per questo, non centra nulla nemmeno la senilità, ma il fatto di aver vissuto un'epoca, e di essere ormai giunti al capolinea.
Questi occhi sono gli occhi di un vecchio, tremolanti e piegati
Tenterò di trattenere il respiro
Questa è una mia decisione. Ho avuto una vita piena
e questi sono gli occhi che voglio che tu ricordi.
Anche se la cosa più suggestiva è il collegamento tra questo mondo e l'altro mondo, e qua subentra l'elemento della memoria:
Ho bisogno di qualcosa che voli ancora sopra la mia tomba
Ho bisogno di qualcosa per cui vivere
Stipe si misura con lo jodel in "The Sidewinder Sleeps Tonight", e a farla da padrona sono ancora gli archi (qua maestosi), persino in un pezzo come questo, che un po si distacca dal generele rallentamento dei ritmi che domina il disco. Il serpente è un simbolo di morte, di peccato, e anche qua non tarda a venire fuori l'anima nera del disco. Il testo è mordace e pungente, tra la quotidianità domestica e l'asprezza anti-amorosa, senza scadere nel volgare o rendere il tutto troppo prosaico.
"Everybody Hurts" è forse la più famosa delle canzoni in lista, ed è tra le più belle, una variazione soul orchestrale, una specie di calmante o una corda per tirare avanti, un appiglio dove aggrapparsi, perchè tutti soffrono, e la notte non dura per sempre. I voli di Stipe sono sempre più disinvolti e slanciati, vanno al dilà del tempo e dello spazio e trasformano questa in una poesia assoluta, che va bene sempre e per tutti, come dice il titolo stesso.
A questo punto lo strumentale serve quasi a fare una sosta, riflessivo, scarno, sommesso, eppure utile nell'economia del disco (non l'ho mai skippato, posso skippare due o tre pezzi ma questo non lo salto), e ci sarà un perchè. Che effettivamente l'album sia troppo pesante? Che la sovraproduzione sia ridondante e controproducente? Nel bene e nel male, gli REM di "Automatic For The People" sono anche questo.
"Sweetness follows" è terribilmente intensa e, se non altro per i feedback di chitarra di Buck, la componente più "rock" sembra riemergere nei toni, anche sopra le pompe dell'organo. Il tema è quello della perdita delle persone amate, e di quanto tutti siamo più insensibili di quanto pensiamo, come dirà qualcuno più avanti. Il discorso sull'insensibilità è di per se un espediente per rimandare all'idea di memoria, l'ultima speranza rimasta. Alla fine cosa resta? delle piccole vite, tutte distanti e sorde.
Montgomery Clift ispira "Monty's Got A New Deal" (dove mr Buck nell'intro classico e luminoso è geniale... senza contare le sfumature orientali del refrain), uno dei due pezzi più ritmati del disco, insieme a "Ignoreland"; la prima, una mostra di immagini di morte, la seconda, un invettiva politica sempre sulla sordità e sull'indifferenza, sulla falsità che ricopre l'informazione e offusca quelli che sono i problemi veri.
Questi bastardi hanno preso il loro potere dalle vittime degli anni "USA contro il resto del mondo"
Ce l'aveva con la politica repubblicana negli USA, che aveva tenuto banco per tutti gli anni 80, soli dieci anni che erano sembrati dilatarsi e non finire mai, quasi che non se ne potesse uscire vivi.
La spinta socialista è finita giù negli abissi
nel burrone spinta dalla teoria "trickle down"
Hanno ipnotizzato l'estate, nel 1979
Il capitale marcia covando propositi subdoli e abili, adatti per il mondo dei media
spietati, e griffati. Super cittadini USA, rampanti
cure di potenza extra. Relax
Difesa, difesa, difesa, difesa
Si passa per il tema della sicurezza, alle griffe, al boom economico e alla cavalcata del nuovo capitalismo. La teoria del "Trickle Down" è la teoria del gocciolamento, in pratica: coccolare le classi di persone più agiate affinchè a poco a poco i benefici possano gocciolare sul resto dei cittadini.
La TV dice un milione di bugie. Il giornale ha paura di riportare
ogni cosa che passa sul cucchiaio del presidente.
L'importante è che non ci sia ancora qualcuno che dice che "Automatic..." è l'album dell'intimismo. Anche se queste riflessioni che seguono, e la dialettica che c'è sotto è pur sempre intima e riflessiva, e lo scopo stesso della canzone è pur sempre personale, come si vede sotto...
Se non esistessero li avremmo creati noi. Può essere, è vero
Ma sono arrabbiato lo stesso. Qualcuno dovrà pur prendersi la responsabilità
so che tutto questo è vetriolo. Nessuna soluzione, uno sfogo
Ma mi sento meglio ora che ho urlato, e tu?
...se non che, il chiaro invito "e tu", lancia comunque un invito. Un brano politico quindi, in tutti i sensi. Forse molto più che in passato, vista la diffusione che ha avuto il disco.
Manifesto del sesso più edonistico e senza implicazioni sentimentali è "Star Me Kitten", ove star sta per ***** (che sono stelline), infatti il pezzo doveva intitolarsi "Fuck Me Kitten". Non una brusca interruzione ad un disco che non lascia spazio alla speranza, ma proprio il frutto della mancanza di speranza, e che toglie al sesso qualsiasi spiraglio verso qualcosa che non sia solo carnale. è come dire che non c'è uscita, da nessuna parte. Musicalmente un punto morto, un artificioso punto morto che porta alla crisi vera e propria; appare chiaro che il limite dell'album è il suo carattere "mediato" ove in passato era stata l'immediatezza a fare la fortuna degli REM; le canzoni purtroppo finiscono per appesantirsi sotto una muraglia di espedienti più drammatici che musicali. A porre rimedio della fatica che alla lunga si fa, nell'ascolto, interviene l'ultimo lotto di canzoni, tutte notevolmente più leggere, e tutte fondamentali. Leggendaria "Man On The Moon", poi usata come soundtrack per l'omonimo film, è dedicata a quel comico che proprio non riusciva a far ridere la gente se non quando proprio non voleva. Ripesca quel folk rock scintillante di un paio d'album prima. Il risultato è da urlo, e Buck festeggia l'evento con una impennata solistica che sa di evento. "Nightswimming" evita tutta la traversata orchestrale (che un po è driblata e un po la mette all'angolo) e punta direttamente all'accoppiata voce-piano, con esiti miracolosi secondo me. Il pezzo era pronto sin dai tempi di "Green", ma evidentemente i tempi sono maturi solo ora. Si tratta di una ballata introspettiva-retrospettiva, riporta il registro della band alla naturalezza, per parlare di...naturalezza. La coerenza porta sempre buoni frutti, anche nella musica.
la fotografia sul cruscotto, scattata anni fa
capovolta in modo da riflettersi sul parabrezza
ogni lampione rivela la foto al contrario
ma ciononostante è così chiara
Ancora il tema della memoria, ma inutile interpretare, perchè ognuno di noi ha le sue "foto che si riflettono sul parabrezza".
Poi riparte il viaggio, in una notte d'estate, settembre stava arrivando, e non era mai troppo tardi per fare il bagno... tutto pennellato con fantasia e leggiadria nella canzone, tra orbite spaziali, giochi di luce e increspature dell'acqua. Ripensare a tutto questo, commuove.
La scomparsa del poeta John Seawright, ispira l'epitaffio acustico di "Find The River", capolavoro conclusivo.
Il fiume va verso l’oceano
Una fortuna per la risacca
...
La forza ed il coraggio
superano gli occhi stanchi e privilegiati
del poeta del fiume che cerca la semplicità
Sali qui e parti per il viaggio
Tutto questo sta venendo verso di te

John

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martedì 3 febbraio 2009

R.E.M. - Green (1988)


Anno: 1988
Etichetta: Warner Bros

Line Up:
Michael Stipe – voce
Peter Buck – chitarra
Mike Mills – basso
Bill Berry – batteria

Tracklist:
1. Pop Song 89
2. Get Up
3. You Are The Everthing
4. Stand
5. World Leader Pretend
6. The Wrong Child
7. Orange Crush
8. Turn You Inside-Out
9. Hairshirt
10. I Remember California
11. Bonus Track*
*canzone senza titolo suonata a strumentazione invertita.

Una boccata d'aria fresca.
Così potrei descriverlo senza pensare di essere poco esaustivo, visto che per me si tratta proprio di questo: un album aeriforme, infatti ascoltandolo sembra quasi di sentire una brezza che ti smuove i vestiti di dosso, che rinfresca dal torpore di questo caldo fastidiosissimo e dal torpore di un momento di immobilismo-paralisi sentimentale/esistenziale/sociale/echinehapiùnemetta condita da quella solitudine che non manca mai, ma che in questo periodo estivo è leggermente più pesante.
Finora ero stato più attratto dal suono metafisico di Murmur e da quello più distorto di Monster, ma probabilmente mi ero lasciato sfuggire sotto il naso l'album più delicato, tenue e inebriante dei rem, senza arrivare alla emozionalità ipertrofica di Out Of Time / Automatic...
Green è l'approdo degli rem su major, una versione slavata, limpida e rifinita (pur nel suo essere iper sobrio /schematico a volte quasi abbozzato) di Document, ossia una bella dose di folk rock fatto transitare in un mondo sotterraneo in cui scorrono ancora vivissime le esperienze indie undergorund anni 80 americane, dai Ramones ai Replacements a tutto il resto, quello che poi esploderà nella piccola rivoluzione "alternativa" dei 90. Dopo il passaggio "indie" la musica degli rem riemerge come una specie di semplice e rudimentale pasticcio di sonorità diverse, sensibilità diverse, dal blueseggiante al punkeggiante, tutto naturalmente narcotizzato in quella sottilissima e vibrante atmosfera che riescono a riprodurre solo gli rem, che è poi il loro marchio di fabbrica, tutto unito all'insegna della genuinità e della naturalezza (l'elemento naturale è richiamato sin dalla copertina, fino ai testi dei brani a volte dediti all'ecologia a volte tesi ad esprimere un certo sentimento naturalistico-spiritualistico).
Il passaggio sotto major si fa sentire tutte le volte che il sound freddo-scarno-ipnotico cede il passo a sonorità meno oscure, certamente più "pop", musica leggera appunto, anche se contiene in ogni sua fibra delle reminiscenze che vanno dai Byrds fino agli Stranglers, dai Led Zeppelin ai Buzzcocks.

Non mi voglio dilungare nel dire CHI sono gli R.E.M. e che musica fanno, innanzitutto, perchè sono così famosi che sarei solo ridondante nel dare una loro descrizione generale. Preferisco incollare una introduzione alla band scritta da una persona molto vicina alla band, che ha condiviso con loro una delle stagioni musicali più interessanti della storia, un amico e compagno di battaglie politiche:

la musica dei REM è veramente onnicomprensiva. Hanno usato ogni colore sulla tavolozza, hanno inventato dei colori propri, hanno dipinto questo enorme murale di musica e suono ed emozione, grandi come degli edifici [...]
E, come si può spiegare il dialogo tra Michael e l'ascoltatore - un dialogo che è cresciuto nel tempo e con cui noi siamo cresciuti? Uh, c'è tanta saggezza nei sentimenti in queste canzoni che, penso, ci hanno aiutati a trovare cose che sapevamo di avere dentro di noi, e penso che ci abbiano aiutati anche a trovare cose che non sapevamo di avere dentro di noi. E posso dire che ci sono cose che tengo e sento molto profondamente qui dentro che sono state messe lì proprio da Michael Stipe. La cosa davvero incredibile, a questo riguardo, è che mentre succede questo... tutto questo succede senza che uno sia in grado di capire nemmeno una cazzo di parola di quello che lui dice… questo nei primi dischi ed è, era… è una cosa così bella ed è così aperto all'interpretazione tutto ciò [...] lui è un vero poeta: può essere diretto, può essere completamente astratto, può suscitare un' emozione con precisissima accuratezza e può essere completamente obliquo e tutto viene compreso.
Peter Buck suona la chitarra come uno che ha lavorato in un negozio di dischi e quando dico questo, dico che tutto il suo modo di suonare la chitarra non è necessariamente derivativo di tutta questa musica che conosce. E' che conosce la sua musica così bene, che è più un suonare attraverso i buchi e inventare cose e toccare punti ancora da coprire e di conseguenza, credo, spingere il progresso dei Rock and Roll. Penso a lui...e a quello a cui ha contribuito, aprendo una strada per la musica alternativa per gruppi come i Nirvana e i Radiohead e da qui all'infinito.
(Eddie Vedder, 12/03/2007, discorso tenutosi alla Waldorf Astoria Hotel, New York, per l'introduzione degli REM alla Hall Of Fame)

Green è l'album della svolta commerciale, è l'album del compromesso, dell'inizio dell'imborghesimento (direbbero i soliti moralisti) ma anche l'album della denuncia ambientalista (l'album VERDE, appunto), ancora documentata con veemenza, a volte con sarcasmo, o con toccante malinconia (in linea con gli episodi precedenti, ma forse anche in modo più esplicito).
Pop Song 89 è la canzone pop perfetta, non c'è altro da dire a livello stilistico: refrain indelebile, ritmo squadrato, intermezzi psycho-surf molto retrò. Il testo è una botta di autoironia che verte proprio sul fatto che la band si stava lanciando alla scalata della classifica, insomma, una presa per culo della hit pop.
Si gioca proprio sulla fama:
Ciao, ti ho visto, ti riconosco, ti conoscevo già
Penso di riuscire a ricordare il tuo nome
Ma anche sul rapporto del testo con l'impegno sociale:
Dobbiamo parlare del tempo?
Dobbiamo parlare del governo?
Questi 2 versi secondo me sono una presa per culo galattica a chi si aspetta qualcosa da una band, pronta magari a giudicare chi si "vende" alla major. come dire: "cosa ti aspetti da noi? di cosa dovremmo parlare? di cazzate senza impegno? di politica?".
Get Up è un'altra genialata pop, tra coretti, handclappind, un po beatles, un po folk, con tanto di bridge simpatico come di consueto nelle marcette degli rem. Naturalmente questo è solo l'involucro, la sostanza è un brano che incita all'attivismo:
Sleep delays my life... GET UP GET UP
uno dei versi-chiave dell'album, il sonno che dilata la vita..
Poi ancora:
Dormi, dormi, dormiglione
alzati, alzati
Sveglia
alzati, alzati
Hai tutta la vita davanti a te
alzati, alzati
I sogni complicano la mia vita , i sogni completano la mia vita
altro verso chiave:
Dreams they complicate my life , Dreams they complement my life
Esiste una vita comoda, appartata, semplice... poi c'è una alternativa... che è appunto ciò a cui punta il pezzo.
This time, no escape, I wake up
Questa volta niente fughe, mi sveglio. bellissimo, no? mi ricorda tanto Escape is never, the safest path , verso tratto da "Dissident"(appunto, dissidente) scritta proprio dal già citato Eddie Vedder, che nel discorso riportato sopra farà anche riferimento nel finale all'impegno sociale degli rem e alla lezione di attivismo musicale data a tutti, proprio in un momento storico in cui la musica rischiava di subire un doloroso distacco dalla realtà.
You Are Everything è una delle 2 o 3 perle del disco, una meravigliosa power ballad country rock percorsa da una tensione emotiva notevole, che scorre tutta d'un fiato, qualcosa che somiglia più alla composizione elegiaca o alla preghiera a un dio-tutto (il sottofondo "boschivo" è un indizio di questo elemento "panico"-boschivo e "panteistico", you are everything appunto). Decoro di piano, fisarmonica, e quel tocco di mandolino che impreziosisce tutto ("Loosing My Religion" era già nell'aria).
Ecco come inizia il brano:
A volte sento di non poter cantare... La LUCE
se non è una preghiera questa...
da notare il motivo ambientalistico quindi etico e politico; ma anche spirituale, sotto un altro profilo... e perchè no, anche amoroso... visto che come ci insegna Eddie, nella sua guida ai testi dei rem, si tratta di parole liberamente interpretabili, che in questo caso, se riferite alla persona amata, non possono che essere ancora più belle e... magiche.
Torna l'ambientalismo:
Ho realmente paura di questo mondo
Ho realmente paura per me
e la bidimensionalità del problema, perchè il mondo non è mai slegato dal singolo soggetto, che finisce dunque, alla fine con l'identificarsi nel tutto(...everything...).
Bella l'atmosfera di pace ricreata nella narrazione:
Senti il suono del viaggio e del motore
Tutto ciò che senti è il tempo sospeso nel viaggio
E senti una pace assoluta
Una calma sospesa che non ha una fine
Ma lentamente scivola nel sonno
Le stelle sono la cosa più grande che hai mai visto
E loro sono lassù per te
Per te solo, tu sei il tutto
Poi emerge in tutto il suo splendore il tema amoroso, nel finale, con dei versi tra i più belli di sempre, scritti a questo proposito:
E lei è magnifica
Lei è così giovane e vecchia
Io guardo lei e vedo la bellezza
Della luce della musica
Le voci parlano da qualche parte nella casa
Primavera inoltrata e sei troppo stanca per dormire
Con i tuoi denti in bocca
Tu sei qui con me
Tu sei stato qui e tu sei tutto
La stessa atmosfera e lo stesso stile lo troviamo in Hairshirt che probabilmente è l'unico pezzo privo di una propria identità stilistica e tematica, un inno alla vita costruito con poche immagini che si rivolgono alla personale interpretazione di chi ascolta.
Stand musicalmente riprende quanto visto con "Pop Song" e "Get Up", solo che qua c'è un marcato tocco hendrixiano, con quel delicatissimo assolo ben piazzato al posto giusto ed al momento giusto, tutto wah-wah, che crea la giusta variatio in un album che senza questi piccoli particolari sarebbe fintroppo omogeneo, e che effettivamente, a un ascolto superficiale non può che sembrare monocorde, ma chiaramente bisogna andare nel profondo delle cose per capirle; ed è questo l'invito del brano: andare nel profondo, capire il posto dove ci si trova, orientarsi. La metafora dell'orientamento e dei punti cardinali è utilizzata per dare l'idea di un soggetto che è portato a capire i fatti che lo circondano, e ad interagire col mondo, sempre riprendendo quel tema già visto, dell'attivismo, e in modo sempre raffinato e certamente non sloganistico.
Stand in the place where you are
World Leader Pretend è il pezzo più bello del lotto, vicino alla poetica di "You Are Everything", territori più folk-blues dalle parti dei Led Zeppelin più sperimentali, stupefacenti le sfumature di steel guitar e piano, il drumming che si fa nervoso e tendente al rumore sordo o pennellato, come il vento che si scontra con balle di fieno, ed il controcanto di Mike Mills (bassista, pianista e, come definito da Eddie, secondo cantante solista) che fa sempre la differenza, riempiendo i vuoti delle impennate quasi da preghiera-rituale del cantato di Stipe, che in quest'album è sublime, e acerbo quanto basta. Il brano parla della "conversione" di un capo di stato, o un signore della guerra di Dylaniana memoria, che quasi Manzonianamente riflette sul suo passato e decide di riparare ai suoi errori:
Siedo alla mia tavola e ingaggio una battaglia con me stesso
Sembra che tutto, tutto sia per niente
Io conosco le barricate
E riconosco i colpi di mortaio sui muri
Riconosco le armi, le ho usate anch’io
Questo è il mio errore. Lasciatemelo riparare
Ho scalato il muro, e sarò quello che lo butterà giù
Ho una ottima conoscenza delle mie migliori difese
Io dichiaro che le rivendicazioni sono rimaste lettera morta
Io esigo un nuovo scontro
Io decreto una situazione di stallo
Io indovino le mie motivazioni più profonde
Io riconosco le armi
Le ho messe tutte alla prova. Le ho messe a punto io stesso.
È incredibile con quanti artifici puoi simpatizzare , entrare in empatia
Questo è il mio errore. Lasciatemelo riparare
Io ho costruito i muri, e io sarò quello che li butterà giù
Vienimi incontro e stringimi forte. Serba questo ricordo
Lascia che la mia macchina mi parli.
Questo è il mio mondo
E io sono un presunto leader mondiale
Questa è la mia vita
E questo è il mio tempo
Mi è stata data la libertà
Di fare quello che ritengo giusto
È giunto il tempo di demolire I muri
That I've constructed
Che ho costruito
È incredibile con quanti artifici puoi simpatizzare, entrare in empatia
Questo è il mio errore. Lasciatemelo riparare
Io ho costruito i muri, e io sarò quello che li butterà giù
Tu sostituisci il mortaio. Tu sostituisci l’armonia
Tu sostituisci il mortaio. Io ho alzato i muri.
E io sono il solo
Io sarò il solo a buttarli giù
The Wrong Child è un piccolo affresco di arpeggi di chitarra, ricami di violino, canto e controcanto in stile Simon & Garfunkel, tutto suonato in punta di piedi, un suono crepuscolare ma anche cristallino. Il brano è abbastanza criptico, il tema è quello del "venire fuori", e il rapporto tra bambino e la società, ma è facile immaginare che quella del bambino triste che non gioca con gli altri sia solo una metafora dell'esistenza umana, condotta in modo appartato e dell'avvenimento che sconvolge la vita, cambia le prospettive, e fa entrare la storia tra capo e collo, fino a rendere ormai inevitabile la scelta (e quindi la vita vera, che appunto è fatta di scelte, just go outside).
Orange Crush parla dell'Agent Orange, la sostanza tossica usata in Vietnam dall'esercito statunitense; e suona un po come Neil Young & Crazy Horse di quei tempi, con quelle invettive corali, quella chirarra rude e assordante, e testi che sputano addosso a chi ascolta una scomoda verità.
Emblematico il verso:
We are agents of the free
Che ricorda tanto "the land of the free" dell'inno nazionale... ma l' "AGENT" è anche l'Agent Orange, ossia il veleno, quindi il veleno dei liberi (o della libertà, in senso traslato, degli USA).
Turn You Inside Out risente, come le origini della carriera degli rem, dell'influenza new wave, ma anche del rumorismo e di certe tendenze alla baraonda raggelante e in un certo senso sperimentale, nel suo elettrico monolite sconvolto da una convulsione tutta interna.
I Remember California è un quadretto bucolico, sottolineato da una composizione psichedelica molto seventies, e una ritmica a la Joy Division, e Stipe che canta svelando ancora una volta il suo culto per Patti Smith, il suo autentico punto di riferimento artistico. Oggetto del brano è quel VERDE di cui il disco intende parlare:
Ricordo gli alberi di sequoia, macchine coi respingenti e donnole
...Limoni, lime e mandarini
...deboli tramonti, alta marea
Tutto questo, in costante contrasto con l'ambiente antropico e l'impronta dell'uomo:
I sottomarini Trident nell’Oceano
...Io ricordo gli ingorghi di traffico
Ma si tratta solo di uno sfondo, una scenografia per i fatti narrati, ricordi lontani, ora sfocati e deformati dalla lente della memoria, che si incrociano e si perdono nell'immaginazione, nel racconto che fabbrica la vita e le dona il suo senso, come nella metafora del film Big Fish: la vita come racconto della vita stessa.
Ma il trasporto della memoria e del flusso vitale dell'IO narrante ha anche natura spazio-temporale, e il brano si conclude con un viaggio istantaneo, una specie di teletrasporto, al confine:
At the end of the continent
At the edge of the continent
Che non è solo una zona di confine "politico" o topografico, ma confine innanzitutto dell'esistenza, il limite (l'argine mobile) dell' animo umano che si distende (nel ricordo del passato), come direbbe S.Agostino.

John

domenica 1 febbraio 2009

Oasis - Be Here Now (1997)


Anno: 1997
Etichetta: Epic Records/Sony

Tracklist:
1. D'You Know What I Mean?
2. My Big Mouth
3. Magic Pie
4. Stand By Me
5. I Hope, I Think, I Know
6. The Girl In The Dirty Shirt
7. Fade In-Out
8. Don't Go Away
9. Be Here Now
10. All Around The World
11. It's Getting Better (Man!!)
12. All Around The World (Reprise)


1997. Un anno che verrà ricordato come uno dei più importanti della storia del rock inglese. I Verve pubblicano il pluriosannato Hurban Hymns e i Radiohead quello che da molti è considerato il disco rock più rappresentativo del decennio, OK Computer.

Ma nel 1997 i re incontrastati del rock mondiale sono ancora loro, gli Oasis. Forti di vagonate di milioni di copie vendute dei due dischi precedenti i fratelli Gallagher, personaggi a cui l’autostima non ha mai fatto difetto, tendono sempre di più a rappresentarsi (e a venire rapprsentati) come dei semidei del rock: risse, vita sregolata, droga, concerti tenuti davanti a folle oceaniche, paparazzi, soldi a palate. Tutti fattori che incideranno pesantemente sia sulla vita dei singoli componenti del gruppo sia sulla registrazione del nuovo disco.

Be Here Now. E’ il 21 agosto, quando sugli scaffali di tutti i negozi appare uno degli album più attesi della storia del rock inglese. Il botto a livello di vendite è subito servito: 423.000 copie vendute il primo giorno di pubblicazione, altro record infranto dai fratelli Gallagher.

Cos’è Be Here Now? Forse è più facile iniziare precisando ciò che Be Here Now non è. Innanzitutto non è un buco nell’acqua come a posteriori è stato dipinto sia dalla critica sia dallo stesso Noel. Certo, non è neanche un capolavoro: non si avvicina minimamente a un disco che ha fatto storia come (What’s The Story) Morning Glory? ma non cade troppo più in basso di un buon full lenght qual’è Definitely Maybe. E allora si torna alla domanda iniziale: cos’è Be Here Now? Innanzitutto è un disco che rappresenta fedelmente gli Oasis di quel periodo. Un disco in cui i difetti e gli eccessi (dettati soprattutto dall’abuso di cocaina) sono evidenti, sia nell’eccessivo minutaggio sia nella produzione tamarra, come i pregi. In particolare quello innato di saper scrivere canzoni pop-rock come nessun’altro riesce a fare. Be Here Now è un disco di scontro fra l’anima pop degli Oasis che venera i Beatles –i riferimenti alla band di Liverpool come al solito si sprecano, a partire dalla copertina del disco- con quella d rockstar che va a scavare in un passato caratterizzato dall’adorazione di Noel per un gruppo “pesante” come i Sex Pitols che riaffiora in chiave moderna sottoforma di una produzione che scarica sull’ascoltatore vagonate di sovraincisioni chitarristiche e sfocia in arrangiamenti barocchi e pomposi come non mai. D’You Know What I Mean, posta in apertura, ci dice già tutto a riguardo: quasi minuti 8 minuti di eccelso pop rock striato di venature psichedeliche in cui la voce trainante di Liam, coadiuvata da Noel, si inserisce perfettamente in un contesto mai troppo sostenuto che ha nella solita prova da manuale alla chitarra del Gallagher senior la sua principale fonte d’interesse. Roba per palati fini. L’altra faccia di questa medaglia è posta simbolicamente a conclusione dell’opera col quarto d’ora abbondante formato dall’accoppiata All Around The World/ It’s Gettin’ Better (Man!!). Due composizioni che certo non si possono definire brutte ma che soffrono decisamente di autocompiacimento: ciò che solo un paio di anni prima la band avrebbe condensato in poco più di tre minuti senza fronzoli ora viene dilatato all’infinito, come se il gruppo suonasse davanti a uno specchio con il solo scopo di rimirare la propria grandezza. In mezzo a questi due poli, antitetici ma allo stesso tempo in grado di attrarsi, ci sta tutto quello che ha caratterizzato gli Oasis fino a questo punto della loro carriera. Ci sono le grandi cavalcate rock di My Big Mouth e I Hope, I Think, I Know come le ballatone da stadio quali Stand By Me e Don’t Go Away, dedicata a tutte le mamme e in particolare a quella del chitarrista Bonhead, scomparsa poco prima dell’inizio delle registrazioni. Ci sono pezzi decisamente più ricercati e blueseggianti come Magic Pie e Fade In–Out (in cui presenzia come special guest Johnny Depp) come mezzi passi falsi (Be Here Now e The Girl In The Dirty Shirt).

Si può dire insomma che Be Here Now oltre ad essere il disco degli eccessi è il disco delle contraddizioni, dei contrasti e dei contrari. Forse è proprio per questo che è da sempre il disco più discusso (o discutibile?) della band di Manchester?

Alessandro Sacchi =KG=