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giovedì 4 giugno 2009

Kylesa - Static Tensions (2009)



Anno: 2009

Etichetta: Prosthetic records

Tracklist:
1. Scapegoat
2. Insomnia For Months
3. Said And Done
4. Unknown Awareness
5. Running Red
6. Nature’s Predators
7. Almost Lost
8. Only One
9. Perception
10. To Walk Alone

Line up
* Corey Barhorst - Bass
* Phillip Cope - Guitar, Vocals
* Laura Pleasants - Guitar, Vocals
* Eric Hernandez - Drums
* Carl McGinley - Drums


Ci sono due termini adatti a focalizzare questo disco e quei due termini sono probabilmente "intreccio" e "groove". Il primo riguarda il grande lavoro compiuto dalla band, sia nella fase di scrittura che di registrazione, sugli strumenti e le parti vocali. I semi del rinnovamento erano già presenti in Time Will Fuse its worth, ma apparivano più sporchi e acerbi. Le componenti sludge e metal, infatti, erano sicuramente più notevoli ma si rischiava di offrire una prova che fosse eccessivamente potente a discapito della melodia e della ricerca. In Static Tensions invece c'è una costante ricerca delle nuove soluzioni, dovuta ad un intreccio assolutamente ineccepibile tra gli elementi che erano già un punto di forza nei predecessori ma che ora appaiono calibrati. Confermare la scelte delle due batterie potenzia una sezione ritmica che spazia tra la jam prog e l'efficacia delle parti più incalzanti metal, tra la violenza sludge ed il groove. I riff e le parti di chitarra sono maliziosamente studiate e duettano alla perfezione, così come le due voci - maschile e femminile - ora si contrastano ora si completano. Il secondo elemento caratterizzante è il groove, la ripetività di certi riff o di certe battute rafforza quella maggiore sperimentazione sonora esaltata dall'ottimo lavoro di Laura Pleasant. A tutto questo aggiungete una pulizia che non significa tradimento delle sonorità che li hanno portati fino a questo punto, ma semmai un labor limae che ha portato a levigare un sound in partenza mastodon-melviniano e figlio di sonorità hardcore-sludge. Lo schema delle canzoni non è mai statico, ma in tensione pur presentando dei elementi comuni e che fungono da filo conduttore: questa è la mia personale spiegazione del titolo. Static Tensions è il capolavoro della scuola Kylesa, per ora rimane il punto più alto in tutto, a partire dall'ottimo artwork di John Dyer Baizley (cantante e chitarrista dei concittadini Baroness). Disco capace di accontentare tutti, da chi apprezza i brani più coinvolgenti e veloci (Insomnia for months, scapegoat, almost lost) ad i brani più compassati e complessi (running red, to walk alone, unknown awareness), senza offrire un momento di calo creativo o di sosta. Un disco su cui scommettere in questo 2009.



Sito ufficiale

Kylesa - myspace



Sgabrioz

mercoledì 3 giugno 2009

Kylesa - Time Will Fuse Its Worth (2006)




Anno:
2006

Etichetta:
Prosthetic Records

Line-up:

Corey Barhorst - Bass, Vocals

Phillip Cope - Guitar, Vocals

Laura Pleasants - Guitar, Vocals

Jeff Porter - Drums

Carl McGinley - Drums


Tracklist:
1. Intro
2. What Becomes an End
3. Hollow Severer
4. Where the Horizon Unfolds
5. Between Silence and Sound
6. Intermission
7. Identity Defined
8. Ignor Anger
9. The Warning
10. Outro


Una lunga strada all interno della sofferenza..Ecco come si presenta l' ultima fatica degli statunitensi Kylesa, concitaddini di band come Baroness e Mastodon (nelle vicinanze).
Dopo un album d esordio tanto inaspettato quanto gradito quale To Walk A middle Course, il combo da alla luce un vero gioiellino che si staglia nella nuova scena "progressive". Non sperate però in tecnicismi cari a band come Dream Theater o Fates Warning, la materia è intesa in tutt'altro modo.Due batterie, due chitarre e tre voci...Un album dove l' hardcore, lo sludge, lo stoner e la psichedelia vanno a fondersi per dare vita a un maelstrom sonoro di rara bellezza e intensità...le derive psichedeliche, sono senza dubbio la novità di questo full length, inserite alla perfezione in pezzi come Where The Horizon Unfolds e Between Silence And Sound. Il lavoro della band è ottimo, ogni membro incastra la sua parte alla perfezione, anche la signora Laura Pleasants, che non porta certo la gonnella (nonostante sia davvero ammaliante) non si tira indietro con riff e vocals squillanti.
Un vortice sonico che non lascia prigionieri, che graffia selvaggio come una fiera ferita.
Un muro sonoro massiccio e impossibile da scaflire, si senta il carattere intimidatorio dei riff di Ignoring Anger e The Warning. Un avvertimento appunto. Le vocals coinvolgenti di Hollow Sever, per la quale è stato girato pure un video, il suono dilatato e tribale dei due minuti di Intermission, o i riff che rallentano e pestano come fabbri in Identity Defined. La sperimentazione ha avuto inizio per la band e i nostri in futuro sapranno sicuramente forgiare un sound ancora migliore.Un suono fangoso e pulviscolare tipico di band come Eyehategod, Neurosis, Taint, primi Mastodon.
Da apprezzare in tutta la sua pachidermica portata, lasciandosi trainare dalle sfuriate che sanno ancora di crust e hardcore.
Intrappolati nella loro palude sonora.


Neuros.

martedì 2 giugno 2009

Baroness - Red Album (2007)


Anno: 2007 Etichetta: Relapse Tracklist: Rays on pinion The birthing Isak Wailing wintry wind Cockroack en fleur Wanderlust Aleph Teeth of cogwheel O’ appalachia Grad Hidden track line-up: John Baizley – chitarra e voce Brian Blickle – chitarra Summer Welch – basso Allen Blickle – batteria
La Georgia (negli Usa, non in Europa, nda) si stà lentamente trasformando in una fucina inesauribile di grandissimi combo, amanti delle sonorità pe(n)santi, il cosiddetto heavy me(n)tal, dando i natali prima agli stratosferici Mastodon, poi ai potenti kylesa, ed infine ai creatori del disco oggetto di questa review. Dopo due split più orientati verso uno sludge miscelato con un post-core, le cui radici affondavano nella tradizione già creata da band come Neurosis e Isis, il quartetto di Savannah torna con il suo primo full-lenght: un battesimo del fuoco dove si giocano tutto, trovandosi al bivio tra la gloria e la polvere, tra l’essere un fac-simile iperderivativo o divenire una potenziale realtà, capace di trasformare le premesse in solide fondamenta. Il red album è capace di soddisfare i diversi palati a cui si presenta, grazie alle diverse anime di cui è composto, come un caleidoscopio dalle numerose sfaccettature l’immagine non è mai quella che appare in maniera statica, ma cresce e si evolve ascolto dopo ascolto. La struttura melodica rispetta, nella maggior parte dei casi, un’impostazione di stampo prog, con lunghe dissertazioni sonore che compongono un mosaico le cui tessere, rette da un duetto di chitarre in sincro, rendono dinamico ogni singolo brano. L’atmosfera si sviluppa in maniera ora frenetica, ora riflessiva, ma ciò che sicuramente incuriosisce è il modo in cui la tecnica di ogni singolo componente è capace di elevare il brano a struttura compatta. I muri sonori si ergono su un unico riff portante, al quale si agganciano le singole idee sviluppate, in maniera parallela, da voce, chitarre e sezione ritmica. Merita sicuramente una menzione d’onore la batteria, che è capace di creare tappeti di ritmiche sincopate e di taglio jazzistico, intarsiare mantra sonori sfruttando le proprie conoscenze prog, metal e stoner-psych. E’ questa ricchezza di sonorità e stili che permette al disco di volteggiare, in un valzer irresponsabile, tra le diverse influenze, creando un pot-pourri che rende così difficile la classificazione e l’utilizzo di un’etichetta musicale univoca, che riesca a ingabbiare in un termine tutta l’anima- o meglio le anime - che vivono all’interno del progetto baroness. All’interno del disco trovano spazio anche episodi acustici e strumentali (“cockroac en fleur”), oppure brani più veloci e diretti (teeth of a coaghwheel, O’appalachia) sferzanti di frenetica rabbia e mordente. Dilungarsi sugli elementi che compongono ogni singola traccia sarebbe quantomeno prolisso e superfluo. Basti sapere che si tratta di un’uscita imprescindibile di questo 2007 appena conclusosi, che proietta i baroness in una posizione di tutto rispetto, meritato e guadagnato attraverso jam sofisticate e ben sviluppate, nel panorama mondiale della musica heavy n’ loud. Nel nuovo corso, inaugurato da gentaglia come Kyuss e Neurosis, sicuramente si trovano band capaci di aprire il becco senza risultare soporiferi o la classica minestra già riscaldata.

Sgabrioz

Crime In Choir - Trumpery Metier (2006)





Anno: 2006

Etichetta: GLS Records

Line up
Kenny Hopper: Rhodes piano
Jesse Reiner: Synthesizers
Jarrett Wrenn: Guitar
Tim Soete: Drums
Matt Waters: Saxophone
Jonathan Skaggs: Bass
Tim Green: Guitar

Tracklist:
  1. Women of Reduction
  2. Complete Upsmanship
  3. Land of Sherry Wine and Spanish Horses
  4. Grande Gallo
  5. High Thin Circus
  6. Measure of a Master
  7. Trumpery Metier
  8. The Hollow Crown
  9. Octopus in the Piano


C’erano una volta gli At the drive-in, amici amiconi che si dilettavano a far rock strepitoso e contaminato, prendendo spunto da quello che capitava, ma riuscendo a rimanere allo stesso tempo eclettici, potenti, straordinari e legati ad uno stile rock più “canonico”. Apparentemente tale frase potrebbe sembrare un’antitesi continua, un’unica contraddizione in termini…un cortocircuito logico, in parole povere. Ma vi sfido ad ascoltarveli, ma credo che tutti voi sappiate chi siano gli ATD-I…

Bene, dal gruppo, dopo il 2001, nacquero i The Mars Volta, gli Sparta ed i Crime in Choir: tre gruppi completamente differenti tra loro. Trumpery metier è il terzo disco dei CIC, ed è il primo pubblicato con la nuova etichetta, la Gold Standard Lab di proprietà di Omar Rodriguez Lopez, amico ed un tempo negli Atd-i insieme a Jarrett Wrenn e Kenny Hopper. Questo lavoro è qualcosa di fenomenale, come non si sentiva da qualche anno: rivelazione e uno dei possibili dischi dell’anno, insieme a Return to cookie mountain dei TV on the Radio: pur essendo un disco completamente strumentale, riesce a non stancare, a non annoiare perdendosi in fraseggi ampollosi e arzigogolati, confusi quanto le indicazioni stradali ottenute dal vecchio arteriosclerotico e sordo incontrato per strada la domenica pomeriggio. Non c’è il desiderio di sviluppare trame onanistiche, pure e semplici costruzioni in cui il fine è impressionare per la “tecnica”. No, qui l’obiettivo è meravigliare, emozionare, stupire, colpire, accattivare, distogliere l’attenzione sul mondo e rivolgerla alla musica, costringendo l’ascoltatore a rimanere a bocca aperta per ogni singolo passaggio, accordo, scambio di battute tra gli strumenti. Non sono bravo nelle classificazioni, perché nei CIC c’è tutto: la batteria che viaggia tra il prog malato dei King Crimson, i Gong ed i Rush ed il math rock dei don Caballero e gli Shura, le vibrazioni sassofonistiche del jazz-core e della fusion, la chitarra malata di Fripp, Hendrix, Hackett nel periodo più cazzuto dei Genesis. C’è indie, c’è psichedelica flkoydiana come se Barrett fosse il direttore artistico di questo gigantesco festival sotto forma di supporto ottico. Volete la sperimentazione elettronica di Mike Oldfield? Ce l’avete. Volete i trip dello space rock hawkwindiano? Ve lo diamo noi! Questo lavoro è una bomba al neutrone pronta ad asportarvi ogni frammento di cattivo gusto per la musica. Dopo aver sentito questo, la vista dei blink vi farà venire l’orticaria, l’indiegay sarà più venefico dell’antrace, inizierete a temere J-Lo e astanti come il mobile in stile rococò di Zio Giovanni Maria teme i tarli.
Non troverete una canzone brutta, tutti suonano perfettamente e senza mancare mai di fantasia.


Sgabrioz

CIC - Myspace