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sabato 21 marzo 2009

Black Sabbath - Master Of Reality (1971)



Anno: 1971

Etichetta: Vertigo


Tracklist:

1. Sweet Leaf - 5:02

2. After Forever - 5:25 (Iommi)
3. Embryo - 0:30 (Iommi)
4. Children of the Grave - 5:15

5. Orchid - 2:00 (Iommi)

6. Lord of This World - 4:55
7. Solitude - 5:02

8. Into the Void - 3:08


Nessuno sapeva, nel 1971, che i Black Sabbath, in sole due mosse (1 e 2) avevano (già) cambiato il futuro della musica, o forse qualcuno poteva già intuirlo, ma nessuno poteva immaginare quello che avremmo avuto dopo, e chi dei Black Sabbath prenderà proprio quell'inconfondibile sound lento e pesante (leggasi Doom) marcato dai riff mastodontici di Tony Iommi; chi ne coglierà il lato più duro e ne tirerà fuori quello che passerà alla storia come heavy metal; chi sarà suggestionato dagli scenari bucolici e crepuscolari, che all'interno dell'LP di Master Of Reality si materializzano in una immagine buia dove la band si mimetizza e si fonde nella natura, una figura brulla e oscura, sembianze sinistre, nonchè l'inizio di tutta una iconografia musicale che dei boschi e di certe atmosfere farà un vero e proprio punto di riferimento (e ben presto pure un clichè). Nessuno sapeva che Master Of Reality, senza rilasciare singoli, e senza avere canzoncine apripista facili facili come Evil Woman o Paranoid, avrebbe sbancato nelle vendite, con la stessa, indentica formula vincente dei due album precedenti ma senza concessioni commerciali, il gruppo ormai si era presentato alle masse dei teenager europei ed era già un culto, ed ora torna con un album ancora più incazzato, ancora più urgente dei precedenti, che si apre proprio con un colpo di tosse di Iommy, affogato dal fumo, ma metallico, una specie di ripresa dell'androide di Iron Man, una apertura grezza, con un riff tra i più grezzi, essenziali e copiati della storia, rappresentativo di un album meno fine del precedente, semplificato nelle forme, e con canzoni estremamente più concentrate sia nella durata, sia nella struttura, rese in questo modo più tozze e monolitiche. Nessuno sapeva che ribassando l'accordatura della chitarra e del basso di tre semitoni, non solo Master Of Reality avrebbe portato nel mondo della musica le canzoni più cupe mai concepite fino a quei tempi, ma avrebbe tracciato un sentiero sicuro per generazioni di musicisti ispirati da quel ribassamento per spingere sempre più in la la musica pesante, dall'hard rock dei Kyuss, al metal dei Meshuggah; in altre parole, questo tuffo in basso di Geezer Butler e Tony Iommi fu una specie di tentativo di esplorare territori vergini per la musica (blues) pesante (infatti Master Of Reality fu l'album in cui la band si affranca definitivamente dalle sue origini hard-blues), una specie di faccia oscura della Luna, un lato misterioso e tutto nuovo, una realtà inedita, che qua, per la prima volta si dispiega al mondo, una sorta di liberazione, come si dice in Sweet Leaf, tutto è più chiaro, tutto appare nella sua interezza, finalmente il mondo appare nella sua autenticità, e la chiave per accedere alla verità non può che essere uno strumento che oblitera l'uomo da tutti quei lacci e stringhe, uno strumento di liberazione sensoriale, appunto la dolce foglia; ma la liberazione non è solo nei sensi, ma pure nello spirito, come suggerisce la tagliente critica di After Forever, che propone la liberazione dalla speranza di una vita eterna infinitamente più giusta in favore di una vita finita ma vera e -forse- veramente migliore, se solo si prova a migliorare hic et nunc, e non in una fantozziana attesa infinita e indeterminata di una ipotetica giustizia e uguaglianza che non ci sarà mai. Children Of The Grave riprende il concetto senza mezzi termini, ma con un imperativo vero e proprio: uagnun, mo sentite sto fatto, se volete vivere in un mondo migliore, tiratevi su le maniche (e fuori le palle) e fate vedere che un mondo diverso c'è già e sopravvive (alla minaccia del nucleare, al terrore diffuro e al panico di massa indotto), se no, voi stessi, ragazzi miei, siete già nella cassa. Un messaggio sempre valido e sempre attuale, un inno generazionale a non trasformarsi in persone che vivono già nella tomba, ancor prima di morire. Il motivo del viaggio di Planet Caravan è ripreso in Into The Void, classico pezzo sulla voglia di fuga dal mondo di menti plagiate e inquinamento, l'unico modo per sfuggire al suicidio generale, un mondo corroso dalla guerra, fatta da quei soliti porci figli di Satana, padroni di questo mondo; allora il messaggio conclusivo è: lascia questo mondo in pasto al demonio, lascia queste persone al loro futuro nella tomba (che è già presente), e ricostruisci un posto d'amore. Questo è il messaggio programmatico di Master Of Reality, un messaggio sociale al dilà di tutta la metafora delle droghe, del fumo e tutto il resto. Ma Master Of Reality non è solo il disco "rivoluzionario" e "pesante", è anche un album fatto da episodi tra i più sensibili e raffinati tra le composizioni acustiche di Iommi, la breve e strumentale Orchid , che è un groviglio di due chitarre acustiche che si avvitano una sull'altra, allentate, naturalmente, e l'effetto è straniante, diverso comunque dall'austerità medievale dei pochi secondi di Embryo, che simula un violoncello, e la malinconica Solitude, momenti di riflessione e di cedimento, in un certo senso, in un disco che, come vediamo, non esista a mostrare un lato più fragile dei quattro di Birmingham; quest'ultima è un lentissimo con sola chitarra pizzicata tanto che sembra quasi nascondersi, fare capolino ogni tanto e ritirarsi nell'atmosfera così ovattata nella quale vibrano i toni bassisimi di Butler e la canna del flauto, suonato sempre da Iommi che, da buon polistrumentista che è e che si dimostrerà soprattutto in futuro, suona anche il piano, tutto per cinque intensissimi minuti in cui sembra quasi di trattenere il respiro, prima che tutta questa atmosfera venga poi squarciata dalle mazzate di Into The Void, un susseguirsi di barriti feroci così densi da essere praticamente inespugnabili e impenetrabili, firmati dal riffmaker che forse è il più influente della storia, sicuramente, il più influente del genere, che ha saputo dettar legge dagli emulatori-rielaboratori come i Cathedral ad altri artisti più o meno distanti che hanno citato questo pezzo, come gli Slayer in South Of Heaven o coverizzato, come Soundgarden e Kyuss, naturalmente come tributo per l'infinita ispirazione che il brano ha saputo dare, non solo per quella lenta e inesorabile cavalcata meccanica, robotica, estremamente fredda, ma anche per quel senso di infinita oppressione e soffocamento che è tipico del pezzo, la cui solida unità si scompone solo nel finale, tra le sciabolate solistiche di Iommi, più simili al rombo di un motore che a musica, ma questo è solo un inizio, di tutto un filone che non farà altro che simulare la macchina in musica, dagli Hawkwind, ai Motorhead ai Metallica ai Ministry. Un disco ricchissimo di riff indimenticabili, meno brillante sugli assoli forse, ma questo fa parte del gioco, infatti certe punte di ego sono state prese e smussate rispetto al passato, un favore di un sound più compatto e spartano, ma ciò non toglie a Iommi l'occasione per fare un lavoro bellissimo, specie nell'assolo di Lord Of This World, inaspettatamente molto melodico, specie nella parte finale, dove si intreccia con uno scalcitante Butler, sempre più cupo, sempre più potente, ma il massimo della portata distorsiva dell'accoppiata Iommi/Butler lo si trova nella grezzissima Sweet Leaf, emblematica dell'escamotage tecnico della band, e del trucchetto per trucidare la canzone in un pestaggio di suoni, sempre più tombali e disumani, che fanno rabbrividire quando sono più statici e fanno venire il voltastomaco nelle accelerazioni, in cui non è l'istrione e (sempre più) sgraziato Ozzy a trascinare la band, ma invece il mai abbastanza amato Butler, che ha saputo tessere le migliori atmosfere sabbathiane, grazie poi alle dinamiche imprevedibili, per certi versi progressive di Ward, che alla batteria in certi intermezzi fa dei lavori di grande pregio, come proprio in Sweet Leaf, ma del resto sa anche stare al posto suo, per poi fare prepotentemente la differenza, col suo stile in Children Of The Grave, dove Ozzy e Iommi ringhiano e nel frattempo il ritmo tribale dell'ultima tribù pre-disastro-nucleare annuncia l'apocalisse sotto le bacchette di un Ward tanto dinamico quanto capace di inscenare passaggi drammatici degni delle migliori soundtrack cinematografiche. E non a caso, anche il sussurro finale della canzone sarà usato nel cinema horror oltre a diventare una specie di tormentone da concerto, per uno dei brani più eseguiti e acclamati nella storia della band. Ma il pezzo che guarda più avanti di tutti, è After Forever una specie di War Pigs accelerata con un Butler che tra basso e sintetizzatore sa dare un volto inquietante al pezzo, un galoppo nel quale ogni zoccolo solca il terreno con quell'aggressività e con quella profondità che solo un Butler più gommoso e molle che mai poteva arrivare, per un pezzo ha una velocità e una dirompenza che sono praticamente già nel mondo dell'heavy metal. Nessuno poteva saperlo, ma ora che lo sappiamo, possiamo gradire o non gradire, è solo questione di gusti, ma non possiamo di certo esserne indifferenti.

John

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giovedì 19 marzo 2009

Black Sabbath - Paranoid (1970)


Anno: 1970

Etichetta: Vertigo/Warner Bros

Tracklist:
1. War Pigs/Luke's Wall - 7:58
2. Paranoid - 2:52
3. Planet Caravan - 4:35
4. Iron Man - 5:58
5. Electric Funeral - 4:52
6. Hand of Doom - 7:09
7. Rat Salad - 2:30
8. Jack the Stripper/Fairies Wear Boots - 6:14

Dopo l’
Esordio i Black Sabbath tornano con un album ancora più denso, ancora più compatto, indubbiamente più potente, e anche per questo, più famoso, nonché più celebrato non solo dalle vendite ma anche dalla storia, che vede in questo manifesto dell’inquietudine, intitolato appunto “Paranoid” un punto di riferimento per l’hard rock, ma anche per l’heavy metal, che si può tranquillamente far nascere in questa sede, anche se parlare di heavy metal soltanto è estremamente riduttivo, visto che qua siamo già oltre il metal, ne abbracciamo già le diverse diramazioni e influenze alle quali questo movimento opterà in futuro, magari suggerendo l’idea che tutto era già stato scritto o predetto in questo disco, dal doom al glam, allo stoner alle tendenze medievali o epiche, senza contare la perfetta fusione tra rock pesante, swing, jazz, tutto in un continuo saliscendi corposo, che va da momenti d’atmosfera, ad esplosioni soniche che sembrano fare il verso ad una catastrofe nucleare, una primitivissima guerra del futuro, un annientamento sottile e “freddo”, una apocalisse calma e lenta, che non si manifesta ma è già dentro di noi, o si manifesta da sempre e noi stiamo già dall’altra parte, nel mondo dei morti, e non c’è scampo e non c’è speranza, perché ormai il nostro destino è segnato. Il primo tema l’ho già introdotto: la guerra, quella dei porci di “War Pigs”, gli altri non sono altro che la conferma di quanto visto con l’esordio, ossia l’idea di vivere morendo, o di morire per vivere, insomma il problema della morte come spunto per una serie di suggestioni (più che riflessioni vere e proprie) fatte con la musica. Espressionismo musicale dissimulato in forme apparentemente ferree e solide, che sono solo una apparente e rassicurante impalcatura per tutta una serie di vicende musicali convulse e toccanti, che invece di dare risposte come altri tipi di proposte musicali di quegli anni, pongono problemi, ma lo fanno senza domande (ne vere e proprie ne retoriche; qua di retorico non c’è nulla), semplicemente evocando stati d’animo e pensieri (lugubri, disgustosi, oppure enigmatici… spirituali?). I suoni sono importanti, perché sono degli impulsi per l’ascoltatore; in questo senso il pulsare maniacale e viscerale del basso di Butler, che sembrano far vibrare e scuotere la terra è l’elemento primario su cui si costruisce la piramide del sound Sabbathiano, forse meno di quanto non lo fosse nell’esordio, ma sempre fondamentale, sempre assolutamente ritmico e percussivo, come deve essere questa musica, orientata alla stagnazione e al dissanguamento della melodia, distrutta e cadaverizzata, e in questo c’è la complicità di Ward, batterista dallo stile e dalla tecnica impareggiabili nella capacità di unificare da una parte esigenze atmosferiche (degne della musica da colonne sonore) a volte nebulose e dilatate e a volte dense e irte di metallo e pezzi di vetro macinato, e dall’altra parte ritmi sempre sopra le righe, spesso sfiorando solipsismi anche estranei alla cultura del rock, che anche quando non sfociano nell’assolo che accentra l’intero pezzo, sono capaci di decorare anche i monoliti pachidermici della chitarra di Iommi; quest’ultimo è il terzo gradino della piramide del suono Sabbathiano, una chitarra che ha fatto scuola, ha fatto la storia ed è diventata leggenda, non per le sue melodie ma per la sua capacità di rallentare e cadenzare il suono, aprendo squarci ritmici, come se non interessasse affatto dare corpo alla canzone, ma solo infiltrarsi nel tessuto ritmico e sgranarlo, quasi volesse fare dei crepacci nel terreno, o smottamenti irrimediabili, per vedere quanto è bello schiantare dei massi giganteschi e pericolosi su un suono già rumoroso per conto suo. Sul vertice della piramide c’è Ozzy, notevolmente cresciuto in questo secondo disco, sempre sgraziato e melodrammatico, ma ora più cantilenante che mai, quasi bambinesco a volte, le sue sembrano filastrocche infantili, e non per questo meno nere e malvage, anzi forse proprio per questo ancora più perverse, preannunciando non solo una serie di immagini del bambino associato al demonio, molto comuni nella musica e nella cinematografia horror degli anni 70 e oltre, ma anche capaci di preannunciare alcune delle grandi idee epocali e rivoluzionarie dei Korn (la cantilena, l’infantilismo, la morbosità dell’infanzia e il peccato originale…). L’album è coeso, un macigno di idee una più vincente dell’altra, nulla è lasciato al caso, nulla sfugge dall’attento controllo di una band scrupolosa e cosciente di essere all’apice della sua rivoluzione nella storia della musica. È il 1970, ma ci vorranno decenni per riuscire nell’esegesi e nell’interpretazione delle gesta musicali dei Black Sabbath. Ora voglio passare velocemente in rassegna alcuni dei momenti più interessanti di “Paranoid”, naturalmente senza nessuna ambizione di esaustività o sistematicità.

WAR PIGS --- questa doveva essere la title track, ma la casa discografica decise di optare per un titolo meno forte, il più “neutro” ‘Paranoid’. Ovvio che si tratti del pezzo che simboleggia in concreto tutto l’album, a livello di tematiche e non solo. Se l’esordio vedeva come tema portante l’essoterismo, il secondo album è invece il proseguimento logico del pezzo con cui i Black Sabbath avevano chiuso il primo capitolo, “Wicked World”, perché anche qua le tematiche horror sono solo una metafora astratta della realtà storica vissuta dalla band, che in “War Pigs” viene fuori liberamente e in modo esplicito, fuori da ogni finzione scenica. Il testo parla chiaro, tanto che non c’è bisogno di interpretazioni:

Generals gathered in their masses
Just like witches at black masses
Evil minds that plot destruction
Sorcerers of death's construction
In the fields the bodies burning
As the war machine keeps turning
Death and hatred to mankind
Poisoning their brainwashed minds, oh lord yeah!
Politicians hide themselves away
They only started the war
Why should they go out to fight?
They leave that role to the poor

I parallelismi con l'immaginario gotico-orrorifico sono sempre presenti, come si può vedere, ma la cosa più interessante è l'introduzione del tema dell'alterazione mentale, la "ipnosi di massa" (tema ripreso dal classico dei Sepultura), nonchè del motivo politico, che fa del brano in questione, una vera e propria canzone di protesta; una protesta che invece di mostrare un mondo alternativo fatto di pace & amore, illustra il paradosso, mostra spietatamente il destino di questa umanità, scopre a tutte la barbarie, la rende esplicita, attraverso una musica che ne incorpora la violenza e il primitivismo. Così come questo mondo devastato dalla guerra sembra regredire, allo stesso modo la musica riporta l'ascoltatore in uno status primigeneo dove le persone di combattono tra loro senza pietà; i versi emessi dalla chitarra di Iommi sembrano veramente sirene che chiamano alle armi(come la sirena campionata nell'introduzione del brano), o richiami di mammut inferociti, lo scalpitio animalesco è reso alla perfezione da Ward, alla batteria. A colpire è l'alternanza tra momenti in cui si simula l'ipnosi e momenti di furia, tra ripetitività sfiancante e cambi repentini e ancor più inaspettati, assoli fantastici che segneranno un'era e saranno patrimonio di tutta la storia della musica successiva. Ritmiche tra il tribalismo e le fredde geometrie, e squarci chitarristici disumani, come la guerra, versi da animali, come quei porci, i politici che tagliano a fette il mondo e dividono le nazioni su cartine geografiche, senza porsi altri problemi, salvo quello di armare la gente e lasciare che vada a morire nel modo più vecchio e assurdo che esista, ossia la lotta per il territorio.

PARANOID --- si tratta di un pezzo molto breve, che svolge il compit(in)o di "Evil Woman" nell'album precedente: si tratta di un singoletto che sembra una cosa a se rispetto al resto dell'album, un riempitivo inserito per motivare il nuovo titolo del disco probabilmente, una canzoncina bella dura e birichina da lanciare in classifica, per aprire la strada al disco, da prendere e trascinare nelle vendite. Infatti furono venduti milioni di copie in tutto il mondo, che fecero guadagnare cinque dischi di platino nel Regno Unito e quattro negli USA. è vero che si tratta di un brano scoordinato rispetto agli altri e piuttosto disimpegnato, ma la sua enorme fama non è poi così immeritata, visto che si tratta pur sempre di un brano che ha concorso pesantemente alla formazione del suono "metallico", per il suo ritmo regolare e incalzante, nonchè per uno dei riff più geniali e imitati di tutta la storia.

PLANET CARAVAN --- riassume ciò che nel disco precedente era disseminato un po ovunque, ossia l'amore della band per il blues. Quattro minuti e mezzo soltanto, per un brano blues e psichedelico con pochi rivali degni di tale nome, perchè in poco e con una agilità imbarazzante mette a KO tanti gruppi psych rock sia attuali sia del glorioso passato. Una psichedelia oscura e malata completamente dimenticata dai tanti cloni dei Black Sabbath e poi recuperata solo negli anni 90, e neanche da tutti, troppo impegnati ad approfondire e appesantire il versante metallico dei Sabs, che evidentemente sono stati anche altro, e questa ballata sta a dimostrarlo, con uno straordinario tappeto di percussioni leggere e sfumate, che ripropone un Ward ancora una volta diverso, dopo i virtuosismi vistosi di "War Pigs" e dopo le ampie pennellate veloci e pesanti di "Paranoid". Iommi e Butler si intrecciano e si incrociano sfiorandosi e accarezzando il suolo senza mai calcare la mano, e qua sembra veramente di avere a che fare con una band completamente diversa da quella ascoltata fin ora; una chitarra pulita e sognante, una voce fioca e distante, che compare lentamente e poi si disgrega allo stesso modo, tutte tecniche che faranno la fortuna di tutto il rock psichedelico passato e presente, dagli Ash Ra Tempel ai Los Natas. Con questo non dico che il rock psichedelico sia nato con questa canzone, che evidentemente sarebbe assurdo, voglio solo sottolineare l'unicità del pezzo nel repertorio dei Black Sabbath e allo stesso tempo la sua eccellenza anche in relazione al resto della musica che c'era stata prima e che c'è stata dopo. Il testo è una ode allucinata al viaggio spaziale:

We sail through endless skies
Stars shine like eyes
The black night sighs
The moon in silver trees
Falls down in tears
Light of the night
The earth, a purple blaze
Of sapphire haze
In orbit always
While down below the trees
Bathed in cool breeze
Silver starlight breaks down the night
And so we pass on by the crimson eye
Of great god Mars
As we travel the universe

IRON MAN --- già dall'inizio è un cataclisma. la voce di Ozzy è distorta e metallica. il riff di Iommi è la cosa più futuristica e meccanomorfa mai partorita fino a quei tempi da un musicista rock. è l'inizio di una nuova era, suggestionata dall'immaginario robotico e artificiale, il tempo delle guerre spaziali e delle odissee nello spazio, e se "Planet Caravan" ne rappresenta il lato psichedelico, questo pezzo ne carpisce il lato metallico e tecnocratico, che verrà ripreso praticamente da tutti, nel metal, suggestionati in un senso o nell'altro dalle tecnologie, anche quando l'aspirazione luddista sarà il fine ultimo, come nei Godflesh o negli Helmet (e i loro derivati), senza contare tutto il thrash metal degli anni 80. Tecnicamente, uno dei pezzi più formidabili dei Black Sabbath, anche grazie ad una parte di batteria che unisce varietà, estro e potenza in modo perfetto, vuoi perchè è il più metallico di tutto il loro periodo "classico", vuoi perchè qua c'è uno Iommi che suona come una turbina a pieno regime, freddissimo e distorto, un impianto industriale intero in un solo strumento. Incredibile pensare che è lo stesso chitarrista di "Planet Caravan".

ELECTRIC FUNERAL --- ancora un grande pezzo, fatto di refrain martellanti e progressioni al fulmicotone; il contenuto è più che mai apocalittico:

Dying world of radiation, victims of mad frustration
Burning globe of oxy'n fire, like electric funeral pyre
Buildings crashing down to a cracking ground
Rivers turn to wood, ice melting to flood
Earth lies in death bed, clouds cry water dead
Tearing life away, here's the burning pay
Riemerge il tema della tecnologia che prende piede e del pianeta che lentamente si spegne.

And so in the sky shines the electric eye
Supernatural king takes earth under his wing
Heaven's golden chorus sings, Hell's angels flap their wings
Evil souls fall to Hell, ever trapped in burning cells!

La grande guerra atomica è la paura che aleggia costantemente nei testi, con riferimenti talvolta velati, altre volte come in questo caso molto chiari, al difuori di ogni finzione scenica e poetica.

HAND OF DOOM --- l'elefantiasi della chitarra di Iommi raggiunge livelli impressionanti, sia nell'andatura, quel ritmo lentissimo e lesionato da momenti di silenzio o di quiete improvvisa prima del disturbo bipolare e relativo schizzo con wah wah che simula una bestia feroce. "bipolare" è l'aggettivo più appropriato per un pezzo che serve appunto da anello di congiunzione tra il ritratto psicologico, sociologio e politico di una generazione intera. "bipolare" è questo brano, sospeso tra sonorità estreme e diverse. "bipolare" è anche un disturbo, e di disturbi si parla in questo pezzo.

First it was the bomb, Vietnam napalm
Disillusioning, you push the needle in
From life you escape, reality's that way
Colours in your mind satisfy your time
Altro che satanismo. La band parla chiaro. C'è tutto un collegamento tra malessere, disillusione, e la presa di coscienza del declino di questa civiltà. La guerra in Vietnam. Viene introdotto il tema delle droghe, la fuga dalla realtà. A questo punto molte cose diventano più chiare, ache la stessa "Planet Caravan", e quel viaggio che si dimostra solo una fuga, un modo per evadere, per colorare una realtà grigia e senza speranze. Infatti i colori vividi sono una costante di quel pezzo.

Oh you, you know you must be blind
To do something like this
Inizia l'invettiva.

So drop the acid pill, don't stop to think now
Il messaggio è tutto contro l'alienazione del pensiero. "Non smettere di pensare adesso". E l'esortazione a lasciar perdere gli acidi.

RAT SALAD --- è una allegra jam strumentale che mastica ancora le ambientazioni dei brani precedenti, ma dove tutti gli strumenti lasciano spazio a Bill Ward che incide la sua Moby Dick, un assolo di batteria che è un saggio del suo stile e delle sue grandi capacità. FAIRIES WEAR BOOTS --- funziona come una specie di marcia militare, un incubo descritto alla perfezione, non solo a parole ma anche in musica, che vuole riprendere l'andatura anonima, maligna e "da branco" di un gruppo di ragazzi neonazisti descritti come "fate con gli stivali". Ma il pezzo non è un semplice proclama antinazista(c'è solo una vaga presa per culo di queste sottospecie di imitazioni di squadristi), il suo bersaglio è tutt'altro: il tema del pezzo è la paranoia, le manie di persecuzione quindi e gli effetti delle droghe allucinogene, che finiscono col ghettizzare e isolare chi le consuma in una prigione di follia e di incubo in cui tutto sembra poterti uccidere ed essere un potenziale assassino. Ora acquista tutt'un altro senso la title track e quel ritornello che ha portato in vetta alle classifiche i Black Sabbath.

Can you help me, occupy my brain?

Emerge allora un piano di lettura doppio, e nuove problematiche: si tratta di un album sul terrore della guerra o di un album sugli effetti collaterali della dipendenza dalle droghe? o forse che le due cose sono collegate? quella "paranoia" a cosa è dovuta? quella sensazione che i Black Sabbath ripropongono continuamente non è forse solo una richiesta di aiuto più che un messaggio contro le droghe? quel verso animalesco, quel grido di terrore forse non è un monito, non contiene nessuna morale e nessun tipo di insegnamento forse... che tutto questo sia solo un album di confessione? che tutto questo sia una riflessione, un lungo monologo in cui la band racconta di se a se stessa e al mondo per espiare i propri peccati ed esorcizzare il male che c'è in lei e cacciare via le proprie paure? che la guerra e i conflitti in generale siano solo una immagine astratta del vero conflitto, quello dell'uomo e della sua forza di volontà contro la dipendenza dalle droghe? se cambia il punto di vista e proviamo a riascoltare il disco dopo questa conclusiva "Fairies Wear Boots" tutto sembra diverso, tutto assume una valenza confessoria e riporta l'ascoltatore a domande e problemi ancora pià pesanti, che non potranno che essere affrontati ancora, nei capitoli successivi.

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John

lunedì 16 marzo 2009

Black Sabbath - Black Sabbath (1970)





Anno: 1969

Etichetta: Vertigo/ Warner Bros


Si contano sulle dita di una mano gli album influenti e seminali come l’esordio dei
Black Sabbath: tutta la musica del dopo-Sabbath ha dovuto fare i conti con una scena ormai diversa, rivoltata dal suo interno, dove il blues ormai veniva fuori a pezzi, completamente rivisto, anche oltre l’estremizzazione già praticata da Cream, Blue Cheer e Yardbirds, veniva fuori privo di qualsiasi contenuto hippy o intellettuale, per la prima volta la musica nera suonata dai bianchi, diventa ancora più nera, ossia cimiteriale, oscura, come quelle campane a morte che aprono il disco e con esse l’epopea mortuaria dei Black Sabbath, ossia il preludio di tutto l’hard&heavy come è inteso oggi. Solidificazione dei riffs, celebrazione della ripetizione ossessiva e del ripiegamento in strutture fisse, immobili, e l’essoterismo che diventa tema portante, per una musica cattiva e distruttiva come mai era successo prima, monolitica, luciferina e sottilmente maligna quando è leggera, e catastrofica e sulfurea quando la mano si fa pesante, ma in tutto questo, per nulla al mondo il suono diventa banale o scontato, in ogni pezzo c’è sempre qualcosa che sfugge, c’è sempre un mistero da scoprire o da approfondire, e non è possibile abbracciare e comprendere pienamente il grande mistero ed il trauma creato da questo disco, quindi ogni pezzo è come fatto a brandelli, residui di immaginario horror vampiresco messi insieme come pezzi del corpo di Frankenstein, per questo la coesione è ciò che manca nell’esordio dei Sabbath, ancora quasi ingenuo e inconsapevole della portata cataclismatica della sua discesa sul pianeta Terra, quel venerdì 13 febbraio del 1970.
Tony Iommi si rivela una autentica fabbrica di riffs malefici, musiche che sembrano venire da lontano, e destinate a durare in eterno, come l’introduttiva “Black Sabbath”, o come il folk blues anomalo di “The Wizard”, o la cantilenante “N.I.B.”, i suoi solos sono indimenticabili, pezzi di storia e fonti di continua ispirazione, primitivi, selvaggi e spaventosi nel loro aggrovigliarsi come serpenti in una fossa nera, sezionano e sbranano le canzoni, dilatandole e creando code che non si fanno problemi a sferrare colpi pericolosissimi, sotto la direzione di un John Michael “Ozzy” Osbourne dedito alla recitazione e alla declamazione più che al canto, nel vero senso del termine, e ve ne è prova ovunque, perché per la prima volta il cantante non è più tale e non è nemmeno un cantastorie blues, è il guru di una setta, che sibila messaggi oscuri, come nella sinistra “Sleeping Village”, una delle tante palestre per gli abili tessitori di ritmi, Bill Ward, il batterista con la fissa del jazz (vedi “The Warning”, dove Iommi solista poi divaga nella sua migliore prestazione del disco) ed il bassista appassionato di satanismo Terrence Micheal Butler, fautore di mitiche atmosfere tetre che saranno il filo conduttore di brani piuttosto diversi e divisi in parti unificate spesso dal suo moto ondulatorio e sussultorio.
BLACK SABBATH --- si sente la pioggia scrosciare in lontananza, l’oscurità avvolge tutta la natura, gli alberi sono fagocitati in una prigione fossile, incomincia il lento camino del Sabba nero, sottolineato dall’andatura cadenzata di Iommi alla chitarra e di Ozzy che si trascina, come una marcia, tutta pesante e morente, fino all’esplosione nel finale, quando il brano accelera ed esplode in una serie di rintocchi mortuari che conducono all’invettiva elettrica solista che conduce direttamente al termine del pezzo. Il testo non è altro che la sintesi estrema della filosofia sabbatthiana: una figura misteriosa si avvicina, chi la guarda non capisce, non si capacita di quello che sta succedendo, è come un incubo, quella figura misteriosa è dietro l'angolo, e il malcapitato sa che sta per fare una brutta fine, invoca Dio, e sa che sta per essere fatto a pezzi. è l'inizio di questa malvagità nei testi rock. Niente ideali, solo sensazioni, paure, il più grosso messaggio che c'è da dare è un messaggio d'aiuto, che naturalmente non sarà ascoltato. Il fuoco brucia negli occhi dell'assassino e già si vede l'inferno che avanza.
THE WIZARD --- Ozzie suona l’armonica in quello che sembra il pezzo meno in linea con la carriera futura dei Black Sabbath, ma contiene l’essenza e la varietà della proposta sonora di questo primo album, ancora impostato come una derivazione del blues, infatti questo pezzo non è altro che il pezzo blues più nevrotico e depravato che sia mai stato scritto, ritmica jazzata, e chitarra che sembra un insetto in volo, come naturalmente molti dopo proveranno a rifare. Il testo è tutto descrittivo, coglie la scena, la sviscera, prima analizzando l'atmosfera, descritta come una mattina nebbiosa, nuvole nel cielo; poi si passa alla descrizione di una figura misteriosa ma positiva, silente, quasi mimetica, vestita in modo strano, come se venisse da un'altra dimensione o da un'altra epoca. Ed ecco il tema del medioevo e del gotico, che saranno abbondantemente ripresi in futuro, non solo dai Black Sabbath, inutile ribadirlo.
BEHIND THE WALL OF SLEEP --- ritmo sincopato, è il treno che avanza, e fischia tra le corde di Iommi, sempre distorto e solenne, in questo breve quadro di distruzione e nichilismo. Il contenuto è quanto di più terrificante ci possa essere, e quel "treno" che avanza, non è altro che la morte, una specie di metafora musicale dell'olocausto. Si parla puramente e semplicemente della natura che muore. Il sole freddo. I petali cadono, le gambe iniziano a cedere, e lentamente ci si accascia, si diventa simili alla natura ferma e inerte.
N.I.B. --- sormontata da una introduzione isolata dal pezzo, tutta di basso, con un Butler viscido che sembra suonare come un calderone da strega in ebollizione; poi arriva uno dei riffs più famosi e abusati della storia, ad opera dell’instancabile Iommy, sbalordisce in tutte le vesti, sia da riffmaker sia quando si abbandona in solismi che vogliono ricordare sia certe zone oscure del medioevo sia qualcosa di orientaleggiante, ma non per una questione di esotismo, solo per creare e confermare quell’alone di mistero che avvolge ogni singolo pezzo, che resta una area grigia, fitta di suoni a volte saturi, anche grazie ad un Ward presentissimo e variopinto, che adopera modalità e stili diversi di brano in brano, e grazie al gran cerimoniere Ozzy, che della sua voce ha fatto bandiera in diverse scuole e filoni del rock pesante e del metal, quel suo timbro è inconfondibile ed è stato un punto di riferimento per intere generazioni di cantanti, e lo è ancora, perché è inesauribile la sua portata e la sua ispirazione. Ozzy è dotato ma non è poi così tecnico, non ha la smania del bel canto, ha l’urgenza della resa il più possibile anomala e deviata di ogni brano, che deve essere per forza una tappa dovuta di un percorso di purificazione interiore fatto al contrario, ossia che man mano logora e sporca l’anima, fino alla totale perdizione. Ipnotico, spirituale, metafisico, il suono dei Black Sabbath deve tantissimo alla voce di Ozzie, e in questo primo album non c’è momento in cui le due cose non siano intimamente legate, perché persino le pause ed i silenzi mettono paura addosso a chi ascolta, persino quando non vedi la morte e la distruzione, questa si fa sentire, perché sai che è quello il tuo destino. Questo è il messaggio ultimo dei Black Sabbath e forse di tutto il DOOM: l’ineluttabilità del senso della morte, e tutto ciò che ne deriva: dal terrore e dal senso di precarietà e di perentorietà della realtà naturale e umana, al mistero della trascendenza in tutte le sue forme e interpretazioni di volta in volta assunte.
EVIL WOMAN --- è una cover dei Cow che anticipa il disco, che doveva servire per rompere il ghiaccio ed aprire le charts ai Black Sabbath, scelta evidentemente per il testo e per la sua facile presa sulle masse, visto che comunque si trattava di un brano famoso e facilmente coverizzabile, come andava di moda in quegli anni, anche se in questo caso non c’è un gran lavoro interpretativo della band (infatti il pezzo era e resta un corpo estraneo rispetto al disco), salvo il sempre più rilevante e imprescindibile Boiler, sapiente costruttore e interprete di atmosfere anche molto diverse.
SLEEPING VILLAGE --- funge da introduzione al pezzo successivo, ma vive di una sua propria personalità, neanche poi tanto semplice, visto che si tratta comunque di un pezzo ben articolato e secondo me uno dei più interessanti, che mi ha sempre affascinato per l’alternarsi di momenti freddi e solenni, più vicini al cinema che alla musica. Tutto inizia con uno scacciapensieri e un arpeggio da brivido, poi inizia la fase recitativa, pochi versi, quattro frasi secche e spietate, poi inizia a prendere forma l’ennesimo rigonfiamento elettrico, con un andamento quasi progressive, tutto in pochissimi minuti di alti e bassi dove ogni strumento irrompe come un assassino che coglie alle spalle la sua vittima.
WARNING --- dal pezzo precedente scivola via Butler con un giro di basso avvolgente, e che sostiene tutto un lungo pezzo a struttura piuttosto aperta, dove la canzone si perde nel vuoto, nelle pause, negli stacchi, nelle riprese, nelle segmentazioni ritmiche, ora praticamente libere e già un passo oltre le “regole” create solo qualche brano sopra, le atmosfere si sedimentano lentamente, poi tutto cresce in scene successive, dove il jazz si mischia col blues ed il metallo si fa sempre più minimale e la pesantezza è tutta pensata e psicologica più che espressa esplicitamente; in tutto questo ogni singolo musicista segue la sua strada, vive il suo protagonismo a modo suo eppure è in grado di mettersi al servizio della band, e lasciare spazio agli altri; ancora una volta il silenzio vale tantissimo, almeno quanto questa musica sublime, che difficilmente è capace di arrivare a questi livelli. Inutile provare a descrivere ciò che non si può riassumere a parole, un brano unico, la sintesi dell’improvvisazione nel rock, una piccola enciclopedia sia della musica pesante, sia della musica sperimentale sia della musica d’atmosfera, in cui c’è contemporaneamente il seme del doom, ma anche il seme del superamento stesso del doom, c’è praticamente tutta una serie di evoluzioni e conquiste che saranno sudate disco dopo disco nella storia della musica che verrà.
WICKED WORLD --- ancora un pezzo strisciante che salta e impressiona come un rettile, ipnotico, parzialmente ripetitivo, tanto per ribadire il concetto, creare l’atmosfera, distorto, poi sempre più dissonante, fino a un intermezzo sperimentale, psichedelico che si disperde nel silenzio di un attimo che precede il mastodontico assolo di Iommi. Ora ci sono due osservazioni da fare: in questi pochissimi istanti c’è già tutto, perché c’è il rock e c’è già qualche soluzione anche abusata da gruppi post rock, c’è la musica pesante e grezza ma pure la psichedelia, e se ci pensiamo, l’assolo non è neanche così complesso o particolare da essere ricordato per meriti squisitamente tecnici, ma gode di un elemento fondamentale, ossia il tempismo, cade al modo giusto e al momento giusto, dopo quel brevissimo momento di silenzio in cui succede praticamente di tutto, nella mente del poveretto che ascolta. Stare a citare quanti movimenti musicali negli ultimi 40 anni hanno attinto da queste intuizioni e da queste tecniche, nonché da questo atteggiamento, è una relativa perdita di tempo, semplicemente perché basta ascoltare, non c’è nulla in questo disco che non abbia offerto occasioni di sviluppo successivo. La canzone concretizza il terrore e gli conferisce una dimensione storica concreta, in opposizione alle astrazioni viste prima: The world today is such a wicked place
Fighting going on between the human race
People got to work just to earn their bread
While people just across the sea
Are counting their dead

A politician's job they say is very high
'Cos he has to choose who's got to go and die
They can put a man on the moon quite easy
While people here on earth are dying of old diseases

A woman goes to work every day after day
She just goes to work just to earn her pay
Child sitting crying by a life that's harder
He doesn't even know who is his father


Nell'album c’è l’idea di una natura risucchiata, nata morta, uccelli che non emettono suoni, conigli falciati dalle trappole, cigni neri in uno stagno che è più che altro una fossa, la foschia che si fa sempre più ampia e avvolgente, città sprofondate nel grigiore e già diventate relitti, la civiltà che si rende conto di essere in un vicolo cieco. E a vegliare su tutto questo ci sono delle figure ambigue quanto sinistre come la statua decapitata di un martire. È l’inizio di una lunga notte…




John