Creative Commons License
Rock e Dintorni by Rock e Dintorni is licensed under a Creative Commons Attribuzione-Non opere derivate 2.5 Italia License.
Based on a work at rockedintorni.blogspot.com. .: 11/01/09

sabato 17 gennaio 2009

Bad Religion - No Control (1989)


Anno: 1989

Etichetta: Epitaph

Tracklist:
1. Change of ideas
2. Big bang
3. No control
4. Sometimes I feel like
5. Automatic man
6. I want to conquer the world
7. Sanity
8. Henchman
9. It must look pretty appealing
10. You
11. Progress
12. I want something more
13. Anxiety
14. Billy
15. The world won’t stop

Siamo a fine anni ’80 e nell’arco di 24 mesi i Bad Religion definiscono definitivamente i canoni di quel genere che negli anni a venire prenderà il nome di hardcore melodico/californiano. Se Suffer dell’88 ebbe l’enorme pregio di rivitalizzare il SoCal punk, No Control ne definì i parametri e le linee guida.
In questo disco la line-up è di quelle extra lusso. Greg Graffin e le sue liriche sempre ficcanti e abrasive, ispirate da una cultura personale mostruosa che gli ha permesso di diventare plurilaureato professore di scienze umane ad UCLA. Mr.Brett Gurewitz, la leggenda del punk rock californiano, alla chitarra solista. Gli ex Circe Jerks e T.S.O.L Jay Bentley e Greg Hetson alla chitarra ritmica e basso. Pete Finestone dietro le pelli.
Con queste premesse le credenziali per un capolavoro ci sono tutte. E infatti i nostri non deludono. In 26 minuti (durata perfetta per un disco hardcore) riescono a concentrare le influenze di band come Descendents e Adolescents, rielaborandole in maniera personale e ricavandone un lavoro furente e sprizzante di rabbia da ogni singola traccia. Nell’economia di No Control un ruolo importante è svolto dai testi arguti di Greg Graffin, con le sue invettive rivolte verso la società contemporanea, la decadenza storica, il progresso esasperato e l’uomo macchina. Ce n’è per tutti, nessuno escluso.
Le prime sei tracce sono già entrate di diritto nella storia dell'hardcore. La ficcante Change Of Ideas apre le danze. Segue l’invocazione al Big Bang purificatore. No Control è il paradigma del Bad Religion pensiero a cavallo fra anni ’80-’90 e dell’impotenza dell’uomo nei confronti del Mondo che lo opprime:

If you came to conquer, you'll be king for a day,
But you too will deteriorate and quickly fade away.
And believe these words you hear when you think your path is clear...
We have no control. We do not understand.
We have no control, you are not in command.

Sometimes I Feel Like unisce un ritmo forsennato a suoni allucinanti, impossibile che non rimanga impressa nelle menti dell’ascoltatore sin dal primo ascolto. Automatic Man sputa in faccia ai supereroi di plastica che ci vengono propinati ogni giorno. I Want To Conquer The World propone invece un risanamento del corpo sociale mediante la creazione di una nuova religione e una nuova cultura.
Sono passati poco più di dieci minuti ma il punk rock non sarà mai più lo stesso, tutto è già stato scritto e detto come DEVE essere scritto e detto.
Sanity ci fa rifiatare prima dell’arrivo di Henchman col suo epico raddoppio centrale, questa è Musica di quelle con la M maiuscola. Da qua in poi il disco abbassa un poco il tiro, ma le perle non mancano, da You a The World Won’t Stop, passando attraverso i 47 secondi della scheggia I Want Something More e l’imponente Anxiety.
Quando il cd smette di girare si ha la consapevolezza di aver ascoltato qualcosa di grande, di importante, che ha segnato in maniera indelebile il suo decennio, oltre ad aver avuto un’influenza capitale sulle band a venire. I Maestri hanno colpito ancora, non è la prima volta e non sarà nemmeno l’ultima.

Alessandro Sacchi =KG=

venerdì 16 gennaio 2009

Minor Threat - Complete Dischograpy (1988/2003)


Anno: 1988

Etichetta: Dischord

Tracklist:
1. "Filler" – 1:32
2. "I Don't Wanna Hear It" – 1:13
3. "Seeing Red" – 1:02
4. "Straight Edge" – 0:45
5. "Small Man, Big Mouth" – 0:55
6. "Screaming at a Wall" – 1:31
7. "Bottled Violence" – 0:53
8. "Minor Threat" – 1:27
9. "Stand Up" – 0:53
10. "12XU" – 1:03
11. "In My Eyes" – 2:49
12. "Out of Step (With the World)" – 1:16
13. "Guilty of Being White" – 1:18
14. "Steppin' Stone (Monkees Cover)" – 2:12
15. "Betray" – 3:02
16. "It Follows" – 1:50
17. "Think Again" – 2:18
18. "Look Back and Laugh" – 3:16
19. "Sob Story" – 1:50
20. "No Reason" – 1:57
21. "Little Friend" – 2:18
22. "Out of Step" – 1:20
23. "Cashing In" – 3:44
24. "Stumped" – 1:55
25. "Good Guys (Don't Wear White) (The Standells Cover)" – 2:14
26. "Salad Days" – 2:46

Pay no mind to us, we’re just a minor threat. Parlare di questo Complete Discography equivale a parlare della storia dei Minor Threat e parlare dei Minor Threat equivale a parlare della storia dell’hardcore. La band di Washington DC rappresenta uno dei rarissimi casi nella storia della musica in cui un singolo gruppo incarni in sé un intero movimento. Sì perché i Minor Threat sono l’hardcore. Non sono gli inventori di questo stile musicale, ma ne sono l’essenza, la furia, l’ideologia, le contraddizioni. Ian MacKaye, Lyle Preslar, Brian Baker, Jeff Nelson. Questa la formazione storica. Quattro adolescenti completamente diversi da quelli che dall’altra parte degli Stati Uniti stavano mettendo a ferro e fuoco la costa ovest, qui non troviamo né sbandati né poverelli senza tetto. Qui abbiamo quattro ragazzi della Washington bene, con una famiglia alle spalle e un tetto sulla testa. La differenza fra Los Angeles o San Francisco è sostanziale: essere hardcore sulla costa ovest significa essere degli sfigati, emarginati, perseguitati dalla polizia e dai compagni di scuola, esserlo nella Capitale significa essere tipi giusti, da rispettare e temere. E allora sotto a imitare Black Flag, Circle Jercks e compagnia: jeans, maglietta, anfibi, catene usate come cinture, pestaggi, intimidazione, aggressività.
Poi arriva anche la musica, e qua le cose iniziano cambiare. Sì può pensare di battere i propri maestri al loro stesso gioco? Si può guadagnare l’adorazione di un’intera scena prima ancora di aver pubblicato un misero EP? Può un uomo solo dare vita a uno stile di vita antitetico a quello proposto dalla scena musicale di provenienza e farlo sopravvivere per quasi trent’anni? Le risposte di Ian MacKaye e dei Minor Threat a queste domande sono tutte dei “sì” decisi.C’è un episodio che rende l’idea di cosa sia riuscita a diventare nell’arco di pochissimo tempo la band di Washington per la comunità hardcore. Poco tempo dopo la fondazione del gruppo i quattro ragazzini bianchi si trovavano a dover aprire un concerto per i grandi Circe Jercks, Ian quel giorno mise talmente tanta foga nel cantare Screaming At A Wall durante il soundcheck che finì per perdere la voce. Data cancellata? Niente affatto. Lyle sale sul palco davanti a un salone strapieno di gente e dice che Ian deve fare un annuncio. Nel frattempo il frontman si presenta sullo stage con un cartello recante tre parole “sono-senza-voce”, afferra il microfono e con l’ultimo filo di fiato sbraita "Guilty Of Being White". Da lì ha inizio il delirio. Ian mostra alla folla i fogli con alcune parole delle canzoni e i fan ricambiano cantando al posto suo tutte le canzoni ad un volume tale da coprire il suono degli strumenti. E pensare che fino a quel momento avevano pubblicato solo un piccolo demo distribuito fra gli amici. Ma la leggenda era già iniziata. Una leggenda partita nel 1981 con la pubblicazione di due 7’’. Minor Threat, esordio fulminante contenente alcuni dei brani più importanti dell’hardcore tutto: si va dall’assalto frontale di Filler alla furia cieca di Seeing Red, dalla programmatica Straight Edge alla deflagrante Screaming At A Wall. In My Eyes in cui risplendono perle quali la title track e Guilty Of Being White. Tutto attraverso la Dischord di MacKaye, quella che diventerà una delle più importanti etichette indipendenti del mondo. I Minor Threat sono già sulla bocca di tutti, ma dopo un esordio così abbagliante arriva di immediatamente il buio. Lyle lascia il gruppo per proseguire gli studi alla Northwestern University e Ian lo scioglie perché dall’alto del suo integralismo non può accettare che della band facciano parte persone esterne a chi gli ha dato vita. Duro, coerente, hardcore. Nel frattempo Brian si unisce ai Government Issue mentre Ian e Jeff si ritrovano impantanati senza riuscire a trovare il bandolo della matassa nel progetto Skewbald. La notte però dura poco, un annetto, il tempo necessario a Lyle di realizzare che la sua vita non è fra il libri ma su un palco davanti a gente che si ammazza di slamdance. Nel 1982 i Minor Threat sono di nuovo insieme, c’è anche un’altra novità. Nei due anni lontani dai palchi la loro fama si è accresciuta a dismisura rendendoli la band hardcore più importante del distretto di Washington, ormai anche più dei mostri sacri Bad Brains. Il loro nome è sulla bocca di tutti e inizia a spargersi come un virus per tutti gli Stati Uniti, la band sbarca anche sulla costa Ovest e nell’estate di quell’anno Ian decide di apportare una piccola rivoluzione in seno al gruppo: accontenta Brian facendolo passare all’agognata chitarra ritmica e accetta nel gruppo Steve Hangsen come bassista. Questa scelta a posteriori si rivelerà l’inizio della fine per la band. Con la nuova line up registrano Out Of Step che grazie alla nuova disponibilità di strumenti e idee porta la struttura delle canzoni ad aumentare in dinamicità e complessità rispetto alle classiche schegge hardcore: Look Back And Laugh e Betray sono i primi embrioni di questo potenziale nuovo corso (stiamo già parlando di post qualcosa? Probabilmente sì), la title track e Sob Story ci tengono invece ben ancorati al passato. Dopo la pubblicazione di questo EP i ragazzi si imbarcano in un trionfale tour che li porta a suonare in ogni buco degli States. Il virus Minor Threat aveva ormai infettato completamente il corpo dell’hardcore americano, la storia della musica si stava scrivendo da sé. Da lì a poco la band andò incontro ad un inevitabile collasso, la politica in fatto di marketing e gestione delle spese di Ian aveva portato i ragazzi sul lastrico e l’ingresso in formazione di Hangsen era andato a minare irrimediabilmente l’equilibrio già fragile fra quattro personalità fortissime. E la furia devastante che sprigionavano si basava proprio su questo equilibrio perfetto quanto precario. Nell ’83, all’apice della loro popolarità, sui Minor Threat cala il sipario lasciando nella scena hardcore un vuoto incolmabile. In particolare la comunità di Washington inizierà a sprofondare in una spirale discendente di violenza, razzismo e omofobia nonché malcelato fascismo. MacKaye rimarrà sconvolto da tutto ciò, una volta realizzato di essere stato lui stesso a dare il via solo un paio di anni prima a questo putiferio non rimarrà con le mani in mano. Nell’estate di due anni dopo riunirà i pezzi grossi della comunità DC nel tentativo di dar vita a una nuova scena basata sui valori della fratellanza, dell’empatia e della non-violenza. Tutti avrebbero dovuto fondare nuove band e così la famosa “rivoluzione d’estate” ebbe inizio. Nacquero Embrace (per mano dello stesso Ian), Dag Nasty (grazie a Brian)e Rites Of Spring (di Guy Picciotto, poi con Ian nei Fugazi). L’emocore emetteva così i primi vagiti.
In Complete Discography viene raccolto tutto il materiale prodotto in quegli anni. Racconta la leggenda di un gruppo di ragazzini che in pochi mesi ha cambiato oltre che la storia della musica anche la vita di migliaia di persone in tutto il mondo. Passare in rassegna queste canzoni è come fermarsi a guardare quello che probabilmente è lo snodo fondamentale della musica degli ultimi 25 anni. Da qui in poi il rock non sarà mai più lo stesso: il punk sembrerà una cosa per mocciosi, il metal diventerà trash e chissà quant’altro (metalcore, deathcore,etc.etc.), le lunghe cavalcate dell’emo e del post-hardcore avranno il loro inizio sviluppandosi e ramificandosi all’infinito negli anni a venire.
Slayer, Nirvana, Faith No More, Refused, Neurosis, Fugazi e tantissimi altri sono partiti da qui. Uno motivo ci sarà.
Onore e rispetto per Ian e i Minor Threat.

Alessandro Sacchi =KG=

giovedì 15 gennaio 2009

Black Flag - Damaged (1981)


Anno: 1981

Etichetta: SST

Tracklist:
1. Rise Above
2. Spray Paint
3. Six Pack
4. What I See
5. TV Party
6. Thirsty and Miserable
7. Police Story
8. Gimmie Gimmie Gimmie
9. Depression
10. Room 13
11. Damaged II
12. No More
13. Padded Cell
14. Life of Pain
15. Damaged I

La bandiera nera, simbolo di corsari e scorribande, di assoluto disprezzamento delle regole ricorre nel panorama musicale quando si accosta il nome al gruppo capitanato dal palestrato e parecchio incazzato sir Henry Rollins. I Black flag si possono collocare tra i border-line degli anni ottanta, geniali e incendiari fenomeni della scena hardcore punk americana, nel senso old school del termine. Ribellione, distruzione, abolizione anarcoide di ogni norma e legge, duri e violenti ma al contempo melodici, nel loro esordio scrivono la storia del rock influenzando decine e decine di gruppi negli anni a venire: dai napalm death ai fu manchu, gridando al mondo la propria angoscia verso la società, una vita in bilico tra il nichilismo e la ribellione. In fondo le loro canzoni veloci, quindici brani sotto i tre minuti, hanno nell'ermetismo delle liriche e nella frenetica energia dei suoni il senso di tutto quello che potrebbe essere l'hardcore degli anni, vedendo in Minor Treath (di Ian Mackaye, che poi fonderà i Fugazi) e Dead Kenndys, i maggiori esponenti del genere sebbene ce ne siano tanti altri e riportare la lista sarebbe banale. La melodia c'è, ma ciò che interessa è la rottura delle barriere e la voglia di scappare da tutto ciò che rappresenta la metropoli, il cui tessuto suburbano ribollisce di rabbia nei ghetti e nelle periferie: i colletti bianchi sono avvisati, le loro canzoni folk-country possono tenersele strette perchè parleranno di amore e pace, di amicizia e solitudine. Ma i black flag decidono di riportare in onda ciò che dicevano i gruppi punk del '77 come Clash, Ruts e Ramones armandosi di metriche cattive come buttafuori dei club, rabbiose come anfetaminici e violente e dirette come un pugno sferrato in pieno volto durante una rissa. Il lavoro di Greg Ginn alla chitarra è complementare a quello di Rollins, miccia ed esplosivo del terreno musicale degli anni, profanatori della scena e assolutamente dei "old dirty bastards". Un lavoro caposaldo della scena punk, da avere e conoscere assolutamente, di cui vi innamorerete già dal giro di Rise Above, oppure per Gimme Gimme Gimme, Six Pack e tante altre.

We are tired of your abuse
Try to stop us, it's no use

Sgabrioz

mercoledì 14 gennaio 2009

Green Carnation - The Acoustic Verses (2006)


Anno: 2006

Etichetta: The End

Tracklist:
1.Sweet Leaf
2.The Burden Is Mine… Alone
3.Maybe?
4.Alone
5.9-29-045
6.Child's Play Part III
7.High Tide Waves

L'ultimo capitolo dei green carnation, sotto certi aspetti il migliore, già dal titolo esprime la sua specificità: si tratta dell'episdio più "diverso", atipico e singolare della discografia della band, la cosa più leggera mai suonata da Tchort, e allo stesso tempo la cosa più intensa, emozionante e diretta, e forse è proprio questo che fa di "The Acoustic Verses" un'opera che va ben oltre l'esperimento acustico di una band abituata a pestare duro, come lo può essere stato un "Origin" per i Borknagar, e anche il più famoso e brillante "Damnation" per gli Opeth; a mio avviso si tratta della più autentica espressione della band, nel senso che probabilmente solo in questo episodio i Green Carnation sono riusciti a liberarsi da quel macigno metallico che talvolta opprimeva e ingabbiava la ricerca innanzitutto comunicativa e poi anche stilistica di una band omrai concentrata sul collettivo e non più solo sulla figura di Tchort (anche se i cambi di line up sono sempre di casa).
Diversamente dai due album sopra citati, "The Acoustic Verses" non è ne folk in senso stretto ne progressive, è invece la più limpida manifestazione della semplicità, un album che quindi fa fatica ad essere apprezzato dal pubblico più attento al virtuosismo, e che può piacere molto a chi invece dalla musica cerca trasporto e calore. Un album quasi completamente acustico, canzoni delicate, leggerissime, eseguite come fossero state composte venti minuti prima, e quindi assolutamente fresche e istintive, molto vicine allo stile semplice ma non retrò degli Antimatter. Anche i testi sono più leggeri; i contenuti truci del passato della carriera dei GC vengono lasciati alle spalle, ed i testi sono ancora più lirici e onirici, come onirico è anche il senso di queste melodie morbide, trasparenti come l'acqua, canzoni vaporose, intense ma composte, semplici ma mai uguali tra loro.
Harstad in quest'album è l'uomo degli effetti, delle vibrazioni, e dell'atmosfera, a duettare con la sua slide, ci sono Tchort e Michael Krumins in veste esclusivamente acustica, delicati e leggeri come un uomo che attraversa una sottile lastra di ghiaccio; Krumins fa anche uso di theremin, che spesso è il valore aggiunto di questo sound contemporaneamente artico e caldo, come un blocco di chiaccio in fusione. Il vero affresco sonoro che avvolge l'impalcatura acustica è tutto ad opera di Leif Wiese (violino), Gustav Ekeberg (viola) e Bernt Andre Moen (violoncello).
Nordhus ed il polistrumentista Sordal guidano le liriche della band in questo affascinante viaggio musicale, con una interpretazione eccellente, miracolosa in The Burden Is Mine... Alone, un brano dai toni nostalgici, che parla proprio di perdita e di mancanza, e di senso di limitatezza; mentre ancora Sweet Leaf si sofferma sul rapporto dell'uomo con le proprie "origini"(la famiglia, il passato), e col suo destino. Questo inizio mi fa venire in mente una cosa tutt'altro che scandinava, tutt'altro che legata alla tradizione nordico-metallica, Give Us Barabbas dei Masters Of Reality, ossia una delicata e soave rilettura del blues/desert rock. Maybe? è un'altra perla romantica e visionaria, in primo piano c'è ancora voce e chirarra, tutto leggero e pulitissimo, anche quando si inseriscono theremin e pianoforte ad allargare le maglie sottili e fluttuanti della canzone. Come gli Arcturus, anche i GC si lasciano tentare dalle liriche di Edgar Allan Poe, e musicano Alone, in una versione molto folk, intrisa d'archi, mentre Childs Play -Part 3 verte tutta su una sonata di piano, e chiude con 3 minuti strumentali le prime due parti presenti nel precedente "The Quiet Offspring". 9-29-045, capolavoro assoluto, è una suite in tre parti, My Greater Cause, Homecoming e House of Cards, in cui chitarre acustiche si intrecciano magnificamente, tra arpeggi sognanti, aperture orchestrali, solistiche, e velatamente d'atmosfera e sintetiche, per poi tornare (con la terza parte, "House Of Cards") alle semplici melodie con in primo piano solo chitarra e voce, prima del finale corale, con una esplosione di percussioni e violino sul ritornello, che riapre i giochi, nel momento più solenne ed epico del disco.La chiusura è tutta del blues semiacustico orchestrale di High Tide Waves, con una straordinaria chiusura solista di Klumins sul finale. Alcune cose cambiano, altre restano le stesse, ma una volta che hai tirato la testa fuori dall'acqua, tutto ti sembra diverso.
JOHN

martedì 13 gennaio 2009

Green Carnation - The Quiet Offspring (2005)



Anno: 2005

Etichetta: Season Of Mist/The End

Tracklist:
1 The Quiet Offspring
2 Between the Gentle Small & the Standing Tall
3 Just When You Think It's Safe
4 A Place for Me
5 The Everlasting Moment
6 Purple Door, Pitch Black
7 Childsplay Part I
8 Dead but Dreaming
9 Pile of Doubt
10 When I Was You
11 Childsplay Part II

A Blessing In Disguise aveva spogliato i Green Carnation di tutti quegli intrecci che ne facevano una band dal suono ptetenzioso e freddo, e aveva inserito quel germoglio di umanità tra quei riff metallici e maligni delle origini.I Green Carnation, partiti come band di Tchort, diventano progressivamente una band di elementi paritari, che concorrono nella realizzazione dell'opera approtando i propri pezzi, rendendo il sound sempre più eterogeneo, diretto e maturo, proseguendo nella direzione della sobrietà, come l'album precedente, e anche di più, smussando parecchio le punte più progressive dei pezzi. Piccola variazione di line up, con un nuovo elemento alla seconda chitarra e nuovo tastierista, e un fenomeno del tutto particolare: Sordal(basso) inizia ad uscire allo scoperto e firma 6 pezzi su 11.L'album inizia con la title track, "The Quiet Offspring" ed è già chiaro che qualcosa è cambiato, ancora una volta, in particolare quella chitarra distorta e accordata sotto la media, ricorda tanto quel suono metal mainstream (nu metal) e un po spaventa, perchè tutto vorremmo ascoltare in un disco dei Green Carnation fuor che la copia degli Evanescence; ma evidentemente non è così semplice: l'inizio brusco e un po tozzo del disco è solo una parentesi un po rozza, per proteggere un contenuto delicato e profondo, carico di momenti emozionanti e meditativi, da tenere lontano da orecchie che dalla musica evidentemente si aspettano altro, il virtuosismo a tutti i costi, lo stupore, la provocazione, l'ostentazione di chissà quale atteggiamento musicale più o meno in voga. Il brano introduttivo è lo specchio del disco intero: una alternanza di chitarroni inspessiti e passaggi delicatissimi, fragili, toccanti, fatti di arpeggi, tastiera usata come contorno leggero, ed una voce più evocativa che mai. La cosa migliore del primo brano, è la cosa(apparentemente) più nascosta, ossia il bridge.
Between the Gentle Small & the Standing Tall è un perfetto mix tra hard rock e metal melodico che ricorda vagamente i Sentenced, pur con le dovute ed evidenti differenze, nell'approccio certamente meno chitarristico e più classicheggiante, con eleganti arrangiamenti di pianoforte; ancora più spostato sull'hard rock anni 70 è la robusta Just When You Think It's Safe, tra chitarre calde e ruvide, hammond e un'esplosione di suoni e colori, tutta in un brano di forte impatto ma che impressiona per ricchezza di sfumature. Lo stesso non si può dire per i temi trattati, visto che in quest'ultima Tchort torna a parlare di realtà / illusione, cadaveri, facce pallide, pelle blù, e cose simili. A Place For Me è morbida, molto atmosferica, solcata di tanto in tanto da venti acustici e piano, archi, qualche sporadico squarcio elettrico improvviso, fino al capovolgimento nel finale.
The Everlasting Moment ricorda icone alternative anni 90: Korn e Alice In Chains, amalgamati in una veste progressive metal, a tratti sinfonico, a tratti lento e sofferto, a tratti epicamente fiero e potente.
Più convenzionale Purple Door, Pitch Black, che però mette nero su bianco il collegamento-chiave delle tematiche del disco: la sofferenza e il bisogno di aiuto si collegano al tema della solitudine, e solo in seguito si chiarirà, con l'intervento concreto del mondo esterno (il delitto) fuori dall'astrazione della fictio poetica, che quel bisogno di aiuto è un bisogno concreto, l'aiuto che vuole un bambino assassinato e lasciato morire:

Childsplay
Il sole si innalza in un giorno d'estate
il suono dei bambini mostra giochi malvagi
lasciando macchie per terra
il crepuscolo strisciò sul cielo
oscure ombre mi ricoprono
...
qualcuno mi ha visto giocare?
...
Ancora solo, è la fine, amico mio
...
qualcuno ti ha visto?
il parco giochi è vuoto orai bambini non giocano più
il gioco è finito
...
steso sulla schiena guardo il cielo
un altro sorriso, un altro tramonto passa e vami posiziono, steso: per sempre.

Torna così anche il tema dell'infanzia nei Green Carnation (che sia un altro punto in comune coi Korn?), un'infanzia distrutta, violata, e il dolore si esprime in un brano tetro quanto composto e armoniosamente triste, più una ripresa ("Childplay pt.II") da brivido con solo voce e pianoforte, nel finale dell'album.
Dead But Dreaming è un pezzo duro e semplice, un hard rock sulfureo, figlio di tutta una tradizione Ozziana ma assolutamente in stile Green Carnation, che mai come ora, in fin dei conti, assomigliano solo a loro stessi; la loro particolarità sta nel riuscire a tirar fuori un'anima struggente a da qualsiasi pezzo, anche se apparentemente impenetrabile e gradasso.
Pile Of Doubt è un altro piccolo capolavoro: inizio catchy molto Maideniano, strofa cantata con un lamento che sembra lo stridio di una sirena, poi il ritornello con pianoforte in evidenza,e in seguito ancora cavalcate metalliche, in una progressione continua, con uno snodo creativo nel bridge e ancora un finale affidato alla melodia, uno dei tanti momenti di calma del disco, che fa di questi chiaroscuro il suo punto di forza.
When I Was You è un altro viaggio onirico tra identità e impossibilità di capire e reagire; il suono di questo viaggio è quanto di più psichedelico sia mai stato fatto dai GC; ora il punto di riferimento sono i Pink Floyd, presi e imbevuti di metallo e di una malinconia opprimente.

Svegliato di forza
il sogno era realtà
e dall'altro latoio ero te e tu non vedevi
Addormentato di forza
nessun sogno che potesse essere realtà
il sentimento di sfiducia
io ero te e tu non vedevi

JOHN

lunedì 12 gennaio 2009

Green Carnation - A Blessing In Disguise (2003)

Anno: 2003

Etichetta: Season of Mist

Tracklist:
01. Crushed To Dust
02. Lullaby In Winter
03. Writings On The Wall
04. Into Deep
05. The Boy In The Attic
06. Two Seconds In Life
07. Myron & Cole
08. As Life Flows By
09. Rain

Se è vero che maturità = sobrietà , allora questo è l'album della maturità per i Green Carnation, che dopo un album composto da 5 suite Journey To The End Of The Night e un monotraccia Light of Day, Day Of Darkness, vengono allo scoperto finalmente con un album di canzoni, proprio come preannunciato dal timoniere della band, Tchort, che lascia immutata la line-up del precedente lavoro e decide di normalizzare la proposta del progetto Green Carnation, e il salto di qualità a me sembra netto e chiarissimo, tanto che guardando a posteriori un "Light Of Day, Day Of Darnkess" sembra quasi che si tratti di una prova generale, una specie di jam ingessata (un po come tutte le cose dei Green Carnation) per vedere quali sono le capacità d'esecuzione dei musicisti assoldati dal compositore scandinavo. Finalmente in "A Blessing In Disguise" si concretizza, ci si allontana definitivamente dal doom delle origini e dalla tuttologia dell'album monotraccia, e Tchort incanala la band verso una direzione ben precisa, ossia quella del metal(dai toni più o meno gotici) imbevuto di hard rock settantiano(più o meno progressivo), per certi versi traendo importanti spunti dalla svolta del lontano 1996 di band come Amorphis (vedi "Elegy", che allo stesso modo univa metal -di un altro tipo e tutt'altra ispirazione- ed hard rock) e di qualche anni più tardi anche degli Anathema (ai quali spesso e volentieri ci si vuole avvicinare in questo album), solo che gli Anathema nel 2003 già avevano abbondantemente passato("A Fine Day To Exit") e sorpassato ("A Natural Disaster") le commistioni metal/neo-pinkfloydiane("Alternative 4" e "Judgement").
Il problema di questi Green Carnation è il loro peccato originale, ossia l'ingessatura del loro suono in una forma troppo statica, dovuta al fatto che Tchort, che vive e pensa questa musica, resta sempre in seconda linea, manda avanti gli altri a cantare e suonare i suoi sentimenti, senza osare fino infondo, senza diventare finalmente protagonista di questa musica... si accontenta del ruolo da regista, e non da primo attore, cosa che costa parecchio sull'economia dell'emotività della band. Ma prima o poi si troverà un rimedio anche a questo, il rimedio starà appunto nella scelta all'interno della doppia anima della band.
Cambia l'iconografia (in copertina c'è il figlio di Tchort a fondo bianco), cambiano i temi (dall'astratto-gotico al personale-introspettivo) come vedremo, e cambia l'etichetta (Prophecy alla Season Of Mist).
Lo sfondo bianco da idea di purezza, purezza dell'infanzia, e protagonista è il bambino, in copertina c'è proprio lui la "benedizione" di cui parla il titolo dell'album. Titolo provvisorio era "Writings On The Wall", che poi vedremo essere una frase chiave.
Prima di ogni discorso sui singoli pezzi, va fatto un appunto sul cantante Kjetil Nordhus, semplicemente in stato di grazia. Lui è la vera punta di diamante di questa formazione, e si questo c'è poco da discutere, ma in questo album c'è tutta la sua maturazione e tutta la sua valorizzazione.
Crushed To Dust: La vita vissuta come una strada senza uscita, un binario dal quale è impossibile deviare,con una specie di Dio-maligno nella cabina di regia, di cui è possibile percepire la mano pesante, oppressiva.

recitando pezzi di una commedia lunga una vita
nella quale il protagonista
lascia alle spalle il mondo.
a un certo punto l'atto finisce
la luce si smorza e la musica svanisce

Costantemente aleggia l'idea della morte, non in modo violento, ma freddo, come la fine di un nastro da prendere e riavvolgere.
C'era una donna stesa sul pavimento

livida, pallida
fissa un buco nella sua anima
c'era sangue per terra
il colpo di pistola vicino a lei
Lui pensò "sono più vicino ora
in questo sentiero che dio ha creato per me?

La canzone, grintosa, metallica, che procede ad ampi e freddi riff, è semplice e piatta, quasi una dichiarazione di intenti, una presentazione del disco, un monito per l'ascoltatore, come per avvisarlo che in questo disco non ci sono eccessi, non c'è la baldoria del lavoro precedente, ci sono dei messaggi più profondi, che necessitano un maggiore impegno lirico, e una minore concentrazione sugli intrecci compositivi, che erano l'anima e il corpo del polpettone precedente.
Lullaby In Winter è letteralmente una ninnananna, una promessa di primavera, una canzone di speranza, amore, agli antipodi dei toni funerei dell'incipit (e dei primi lavori deu GC). Musicalmente è un ottimo pezzo, che contiene tutto ciò che non c'era mai stato nei GC: non ci sono idee sconvolgenti, solo un via vai ondoso di sumature su sfumature, colori tenui, suoni delicati, ma allo stesso tempo carichi, nella prima parte sussurrata e accarezzata, per poi aprire un varco ritmico quasi hard/funk, grazie al sostegno ritmico basso/hammond ad opera di Stein Roger Sordal e Bernt A. Moen, poi pausa, intermezzo psichedelico, e una raffica di risvolti melodici imprevisti in perfetto stile prog rock settantiano, tutto costruito in modo molto naturale, disinvolto, ed anche gli archi non sembrano un artificio in questa composizione.
Writings On The Wall riprende certe immagini inquietanti dell'inizio:

un'ombra si allunga da me su di te
stesa per terra
con il martello sollevato
per farti capire
quando la passione dissolve
il sangue è sui muri

Il messaggio sul muro allora è un messaggio di sangue? ancora quella donna per terra. ancora violenza e una immagine di morte inesorabile e tremendamente fredda, che mostra un delitto già consumato, assorbito. Le liriche di Tchort erano e sono espressive di una certa fissità.... ingessatura anche qua?
Musicalmente il pezzo è fatto molto bene, ancora una volta il connubio tra durezza metal e ricami hard rock psichedelici fa centro, per certi versi richiamando il neo-pinkfloydismo degli Anathema, solo che qua c'è tutta un'altra atmosfera, più pesante, e non oscura-malinconica, ma proprio nera, sottolineata da quell'ingresso di batteria a doppio pedale, e la chitarra solista (di Bjørn Harstad), prolissa, veloce, disinvolta forse per la prima volta. Il pezzo resta fondamentalmente incentrato su quella semplicità annunciata all'inizio, ed anche se è arrangiato sinfonicamente, e con tanto di decorazioni pompose, le melodie sono facili ed orecchiabili, un misto di rock pesante e punte di metal, molto accessibile, con un ritornello che assomiglia tanto a uno dei Bad Religion (!). Evidentemente la strada della sobrietà è la via di uscita da quel mondo ingessato in cui i GC sono stati imprigionati per troppo tempo.
Into Deep parla di uno svanire lento, dissoluzione, quasi ci si lascia strozzare, solo per attendere che qualcuno alla fine possa accorrere in soccorso. Il testo è di Kjetil, che anche qua esprime un certo senso di speranza, ma puntualmente, nel finale, anche questa si perde. è da rilevare una certa influenza dei Tiamat di "A Deeper Kind Of Slumber", si tratta in un pezzo aggressivo, maligno, immerso in una nebbiolina psichedelica che emerge nel ritornello, e da un innesto quasi trip hop(che apre e chiude il disco); il brano è impreziosito da una apertura centrale con violino sullo sfondo, e da tastierone suonate peraltro in modo molto minimal da Moen (che fanno molto pop anni 80).
In The Boy In The Attic è ancora Tchort a parlare, fondamentale è per lui la "benedizione" della nascita di un figlio, che evidentemente lo ha portato a fare i conti con il suo passato (reale o romanzato) vissuto con una figura paterna diabolica, fonte dei turbamenti di una vita intera, che può rischiararsi solo con la nascita di un figlio: l'infanzia infranta che si ricostituisce nel ricambio delle generazioni.
La descrizione del padre dell'io narrante è simile a quella del Dio-maligno di Crushed To Dust, un essere supremo che tocca e fa degenerare le cose, un essere spaventoso da cui scappare, nascondersi. Attraverso una nuova vita, il bambino di ieri affronta il suo passato, e riconquista la sua stessa vita. Il bambino che riposa nella soffitta dei ricordi, può dormire in pace.
Musicalmente, si tratta del capolavoro di tutto il disco, 2 minuti e mezzo di sonata di pianoforte introduttiva, ad opera di Moan, poi l'arpeggio fa cambiare scena, inizia il brano sottoforma di ballata per certi versi classicheggiante, per certi versi moderna (il ritmo che fa molto dub), poi l'intervento del doppio pedale, introduce un'altra scena, ritornello, strofa a tendenza sinfonica, il ritmo aumenta, in una progressione continua verso lidi sempre pieni di contrasti, tra atmosfere eteree e batteria improvvisamente nevrotica e martellante, poi tutto si chiude con una coda di pianoforte, lo stesso pianoforte che apre la successiva Two Seconds In Life, una superba prova di composizione soft, con pianoforte in primo piano, e Anders Kobro che da grande prova di versatilità alla chitarra, da atmosfere soft jazz al sostegno di parti orchestrali. In modo leggero e soave si fanno strada echi di chitarra e un delicato pulsare del basso, che non riempiono gli spazi, ma colgono il loro momento con singole pennellate, e un uso molto ritmico dello strumento, fino alla coda elettrica finale dove all'unisono tutti i musicisti creano una climax ascendente di emotività musicata. Ancora una volta Kjetil primeggia, con una prestazione canora toccante e perfetta in ogni passaggio. Il brano successivo invece, Myron and Cole si incastra per contrasto, anche perchè esso stesso si gioca molto sui contrasti, probabilmente il pezzo più contaminato dell'album, in cui confluiscono quegli spunti orientaleggianti presenti verso la fine di "Light Of Day, Day Of Darkness", ad opera di Sordal, questa volta impegnato anche all'arpa. As Life Flows By propone un prog metal molto melodico e accessibile, farcito di tastiere, ritmo sostenuto e chitarre notevolmente appesantite; sembra la versione più complessa del pezzo introduttivo.
Rain vede ancora la penna di Kjetil, che si concede un pezzo che parla di amore bruscamente interrotto:

Piovve tutto il giorno in cui lei se ne andò
non tornò mai
cercando qualcosa che aveva perso per strada
non torno mai
da me

Una storia finisce, e poi nulla torna al suo posto.

lei trovò una montagna ma non ha voluto scalarla
lei trovò un fiore ma non ha voluto annusalo
lei tovo tesori ma non ha voluto possederli
lei trovò una vita, ma non l'ha vissuta.

E se i testi non sono dei trattati di filosofia è anche vero che segnano ormai una inversione di tendenza e il distacco definitivo dal clichè gotico/romantico/naturalistico/esoterico degli esordi. Il senso dell'abbandono è reso attraverso un suono che esprime malinconia e desolazione. Il brano si apre con la chitarra acustica in primo piano, poi si inserisce la voce e piano piano seguono gli altri strumenti, fino a costituire una melodia che diversamente dagli altri pezzi dell'album, vuole dare una idea di fragilità, anche nelle sue evoluzioni finemente prog, con brillanti sfumature di pianoforte, voce talvolta anche effettata, per esprimere senso di alienazione e distacco. Il pulsare del basso è il pulsare del cuore, chitarra elettrica ed acustica si intrecciano freddamente, ed anche il pianoforte, sul finale, sembra suonare come pezzi di grandine che si infrangono sul suolo, nel vuoto circostante.

John

domenica 11 gennaio 2009

Green Carnation - Light Of Day, Day Of Darkness (2001)


Anno: 2001

Etichetta: The End

Journey To The End Of The Night aveva segnato il ritorno di Tchort, unto dal siero della vita eterna per il suo trascorso negli Emperor e ormai acclamato nell'olimpo del metal; questo Light of Day, Day of Darkness invece rappresenta il seguito del progetto più "sperimentale" della carriera del compositore norvegese ("sperimentale" se non altro perchè gli ha permesso di provare stili molto diversi e lontani dai suoi canoni e dal suo background) e sicuramente la sua incarnazione più ambiziosa: Tchort, avendo provato il disco doom gelido da 5 brani, vuole sperimentare l'album monotraccia, e così forgia un'ora spaccata di musica, un'ora in cui raccimola tutti i suoi capricci musicali e li fonde, li incastra, li intreccia abilmente e in modo molto raffinato (cosa molto rara per i compositori in delirio di onnipotenza come lui). Le coordinate stilistiche del disco sono lontane dagli esordi black del progetto e dal doom affascinante e complesso del come back del 1999, Tchort licenzia la vecchia formazione e al posto della girandola di vocalist presenti nel disco precedente inserisce un Kjetil Nordhus piuttosto in forma, coadiuvato nei rarissimi scream da Roger Rasmussen e nelle parti operistiche da Synne Soprana(dolce ricordo di "Journey To The End Of The Night"); alla chitarra e al basso al posto dei fratelli Botteri degli In The Woods ci sono Bjørn Harstad e Stein Roger Sordal; e un ottimo Anders Kobro alla batteria.Dopo aver vagato nell'oscurità, Tchort trova la sua via d'uscita dall'incubo, è la fine della lunga notte, la nascita di un figlio; un certo senso di "illuminazione" pervade tutto l'album, ancora incentrato sul tema del sogno, dell'illusione e della fuga, ancora troppo descrittivo; la voce di un bambino apre e chiude l'album. L'impressione che si ha è che l'autore abbia voluto esagerare, fare le cose veramente in grande, e metterci il più possibile del suo; il risultato è maestoso, ma non c'è un solo riff, non c'è un solo assolo o un solo passaggio che mi sembra memorabile di per se (l'unico assolo di chitarra degno di nota va dal minuto 41 al minuto 44, che cerca di essere maestoso a tutti i costi, ma è incisivo come acqua tiepida), piuttosto è da ricordare l'abilità nel creare dei grandi intrecci, tutti molto intelligenti, frutto di una vena compositiva matura e fantasiosa anche se secondo me non ancora focalizzata.L'ascolto non è di certo cosa facile, e non si presta ad una maturazione progressiva, l'album è grande e memorabile solo in proporzione a quanto esso riesce a stupire per la proposta mastodontica, ma lascia dietro di se solo un cumulo di atmosfere e suoni che sono tutto il contrario di tutto. Inutile e sterile sarebbe ora fare una descrizione minuto per minuto, ma è bene fare qualche appunto tanto per rendere l'idea del contenuto del disco: l'inizio è tutto un crescendo di atmosfere sempre più dure e spesse, fino al consolidamento heavy che si alterna a momenti di calma, tra ventate gelide che mostrano reminiscenze black, e duetti violino/batteria (minuto 10-13) poi di rito strofa-solo-ritornello, cambio di ritmo vertiginoso, poi apertura atmosferica (ancora violini e chitarra acustica). Nel continuo costruire e smontare melodie e orchestrazioni raffinate (anche troppo), ci scappano anche alcuni momenti di epico heavy-prog con tanto di doppia grancassa (verso il sedicesimo minuto) per poi scivolare nel melodramma (verso il diciottesimo minuto) prima della routine solistica e violinistica (non c'è un solo passaggio di violino che non mi risulti forzato, quasi fastidioso). Un altro momento intenso (o che almeno ci prova) è il passaggio heavy-thrash verso il trentesimo minuto, con contorni sinfonici. Tutto si incastra alla meraviglia, tutto concorre in un quadro complessivo molto solido e freddo, nel quale in fin dei conti c'è ben poco da interiorizzare, c'è più che altro da contemplare, e al massimo isolare qualche momento che sembra più interessante degli altri, come all'inizio della seconda metà del brano, quando si incrociano gorgheggi di Synne e il sassofono di Arvid Thorsen.Se la traccia si fermasse a 10 minuti dalla fine potremmo anche pensare che si tratta di un monumento al tradizionalismo musicale (alla faccia dei Green Carnation come progetto "sperimentale" di Tchort!) progressive-metallaro oscuro-decadente falso-spiritualista, ma proprio al quarantanovesimo minuto inizia un cameo un po triste di effetti futuristici e ventate di musica persiana (Endre Kirkesola al sitar) che conducono all'ultimo assolo e al gran (?) finale assolutamente inodore incolore e insapore.Detto questo, si tratta solo della mia opinione, la stragrande maggioranza dell'altra gente reputa questo polpettone il capolavoro dei Green Carnation. A voi non resta altro che ascoltarlo o riascoltarlo, per rileggere criticamente quello che ho scritto e, magari, farmi notare dei particolari che non ho colto o altre possibili chiavi di lettura. In ogni caso, si tratta di un album da ascoltare.

JOHN