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sabato 23 maggio 2009

Vanessa Van Basten - La Stanza di Swedenborg (2006)




Anno: 2006

Etichetta: Eibon / Coldcurrent / Noisecult / Radiotarab

Line-up:
Morgan Bellini: guitars, synth, sampler, sequencer, mic, software, fx, harmonica, glockenspiel, percussions
Stefano Parodi: bass, synth

Tracklist:
1. La stanza di Swedenborg
2. Love
3. Dole
4. Giornada de Oro
5. Il faro
6. Floaters
7. Vanja
8. Good Morning Vanessa Van Basten

"Mi chiami pure se ha bisogno... o se ha paura". -"Cara ragazza, io non ho paura. Ho già assistito dei moribondi: la mandibola scende un pochino e poi è finita, il più delle volte non succede nient'altro". -"Tutti gli spiriti si trovano in una stanza intermedia, che noi chiamiamo 'la stanza di Swedenborg'. Ma lei non ci resterà a lungo, lei passerà dall'altra parte, verso la luce, ma deve cercare di restare là almeno qualche minuto. Qualcuno la chiamerà da dentro la luce, forse si sentirà afferrare, ma lei cerchi di resistere e di non muoversi da là. E ora mi risponda: un colpo vuol dire no, due non lo so e tre colpi vogliono dire sì". -"Non vada in direzione della luce. Non lasci la stanza di Swedenborg." Sono parole che citano The Kingdom di Von Trier, perfette per inoltrarsi nell’universo dei Vanessa Van Basten. Un monicker curioso, alla luce di quello dei francesi Overmars. Non è un nuovo amore verso il calcio olandese, ma una vena oscuro/parodistica che caratterizza queste band. I Vanessa Van Basten però sono italiani, e di questo, dobbiamo andarne orgogliosi, perché dopo l’ep omonimo, ci si aspettavano grandi cose dal duo genovese composto da Morgan Bellini e Stefano Parodi. E l’attesa non è stata vana, anzi, ripagata nel migliore dei modi, con uno dei debut più belli della musica italiana degli ultimi dieci anni, e non occorre fare distinzione di genere, poiché un album come La Stanza Di Swedenborg può piacere a una gamma eterogenea di ascoltari, poiché intriso di un alone quasi magico, caldo, sempre coinvolgente, nonostante le tinte cupe, poiché emerge l’amore per la musica, sentimento puro, che ha portato la band ad amalgamare suoni sì distanti l’uno con l’altro, ma riuscendo a scovare il filo rosso capace di unirli ed elevandoli a uno status omogeneo e superiore. Loro stessi amano definirsi heavy post-rock, e chi siamo noi per contraddire questa affermazione? La tiltetrack si apre magniloquente ed eterea dove chitarre pesanti figlie del genio di Justin Broadrik si stagliano all’orizzonte, prediligendo il versante Jesu dell’artista britannico, ma non disdegnando excursus potenti nel passato dei Godflesh. Il tutto ricamato a dovere da chitarre acustiche di sottofondo, che avanzano di pari passo a loop sintetici ed evocativi, come i solenni rintocchi della drum machine che accompagna il tutto. E il finale esplode in un calideoscopio di suoni che è un tutt’uno con i quaranta secondi acustici di Love, piccolo anfratto sicuro prima della cangiante Dole. E ora emerge davvero l’amore verso il nuovo corso dei Jesu, melodia e compatta potenza, senza mai alzare eccessivamente i toni, scandendo il tempo con riff taglienti e gioeilli elettronici, mentre soffocate voci si odono in lontana, e non è eresia sentire nel mood della song un parallelo con gli ultimi Katatonia, decadenti e bellissimi, ma rinnovati nel sound, menrte la luce si spegne sulla song, trainata da delicati momenti che sanno di Grails. E nei secondi finali viene ripreso il tema iniziale, chiudendo in bellezza questo maestoso quadro musicale. Un quadro musical lieve come la brezza che soffia sulla costa e porta via lentamente le nuvole, soffusi arpeggi di chitarra memori della musica folk aprono le danze per Giornata De Oro, e mai titolo fu più azzeccato, visto il carattere solare e rilassato del componimento, onesto nelle sue pase e nei suoi campionamenti, mentre i riff si inchinano rispettosi, e mostrano il loro lato più dolce, per non rovinare la pace creata, e allora si inseguono, con gli arpeggi acustici, giocano e si divertono, come bimbi su verdi colline. Mentre tappeti di keys annunciano che il sole tramonta, ed è ora di rincasare. Il Faro è ancora più silente, un piccolo spazio dove raccogliere i pensieri, alla sera, ammirando il mare, citando i Pink Floyd e i figli Labradford; keys che disegnano i bordi e chitarre acustiche che vanno a riempire in maniera delicata gli spazi, in maniera ordinata. Ricordano forse, quello della loro Genova. L’incedere evocativo di Floaters è evocativo e disteso, come se l’album avesse definitivamente cambiato veste, e la potenza dell’inizio fosse solo uno scherzo di classe, e sussurri lontani si mischiano a riff solari, che paiono volare sopra le nuvole, ancora più su fino a brillare della luce del sole, non ci sono parole per descrivere la bellezza di questa canzone, e anche alla fine, quando i ritmi si alzano, non si può evitare di fare gli occhi dolci, e lasciarsi trasportare lontano. Un viaggio verso l’ignoto che le distorsioni di Vanja impreziosiscono, ma alienano la song dal proprio essere, succhiandone il midollo, riducendo il tutto a distorsioni dal sapore drone, ma pregne sempre di melodia. E il grido finale di Good Morning, Vanessa Van Basten, è liberatorio e intimo nonostante la sua strabordante carica di potenza, ma è una potenza controllata, mediata da sentimenti puri e solari, e scherzosamente fa finta di lasciarci, in qualche minuto di silenzio, ma poi torna, rinnovata, acustica, sussurrata, commovente. Si chiude così questo capolavoro moderno della musica italiana e non, e non possiamo far altro che attendere il seguito. Entrate anche voi nella Stanza Di Swedenborg.



Neuros

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