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lunedì 18 maggio 2009

Rolling Stones - Aftermath (1966)





Anno:
1966

Etichetta:
Decca Rec.



Line - up
Mick Jagger - Vocals, harmonica

Keith Richards - Guitar, vocals

Brian Jones - Guitars, marimba, bells, dulcimer, sitar, harpsichord, harmonica
Charlie Watts - Drums, percussion, marimba, bells

Bill Wyman - Bass, marimba, bells, piano, organ, harpsichord

Track list
1. Paint It, Black

2. Stupid Girl

3. Lady Jane

4. Under My Thumb
5. Doncha Bother Me
6. Think

7. Flight 505

8. High and Dry

9. It's Not Easy

10. I Am Waiting

11. Going Home


Aftermath non è l'album più bello dei Rolling Stones, ma sicuramente è uno tra i più fondamnetali, sotto diversi aspetti. Il primo, quello più evidente, è la scrittura dei pezzi tutti a firma Richards/Jagger, binomino che firmerà da li in poi tutte le altre canzoni degli Stones. Il secondo punto è l'evidente rottura (sia a livello musicale sia a livello tematico) che questo disco vuol dare con il recente passato degli Stones. In questo album i Rolling Stones cercano di togliersi l'etichetta di gruppo beat, di gruppo facente parte della British Invasion. Volevano togliersi di dosso i primi anni '60, di distaccarsi dai Beatles e di affondare ancora di più nel blues. Così come un anno prima per Beatles (vedi Rubber Soul, uscito nel 65), i Rolling Stones avevano l'intenzione di creare un disco che avesse canzone legate da un preciso filo conduttore e non solo di singoli e hit da classifica. Non solo sesso, droga e rock 'n' roll ma anche un blues sporco, capace di offondare le proprie le proprie radici sulla strada: blues dei neri cantanto da bianchi. Non per questo si può considerare senza essere accusati di blasfemia, i Rolling Stones come il più grande gruppo blues-rock bianco (o rythem&blues se preferite). E questo Aftermath è il primo mattone. Ultimo, ma non meno importate, è la ricerca e il seguente utilizzo di strumenti non propri del rock. Qua sta tutta l'abilità di Brian Jones (qualità che sarà croce e delizia per la sua persona). Jones introduce nel gruppo l'uso del sitar (ispirato da George Harrison dei Beatles che lo incomincio a suonare proprio in Rubber Soul), oltre a suonare il dulcimer, le marimbas, l'armonica, la chitarra e le tastiere. Nel complesso è un disco semplice, ricercato più nella strumentazione che nel suono, ma allo stesso diretto, spiazzante con un messaggio ben preciso dall'inizio alla fine: la vità è sporca, l'illusione è male, la disillusione è bene ed è l'unica arma che ci abbiamo per salvare la pelle. Significativa è anche la copertina dell'album. Fino ad ora gli Stones nell'album si presentavano tutti e 5 in posa: lo sono anche qua, ma l'immagine è sfuocata a testimonianza che alla fine tutto è destinato a svanire. L'album si apre con Paint It, Black, una delle canzoni più belle del disco. La batteria marziale di Watts, mitigata dal sitar di Jones fanno da tappeto al canto ora ribelle ora malinconico di Jegger. La controrivoluzione dei Rolling Stones nelle parole di Jagger (I look inside myself and see my heart is black I see my red door and it has been painted black/Maybe then I'll fade away and not have to face the facts ), dove la vita non è macchine e colori primaverili (con riferimento all'età dell'Oro di Elvis), ma è solo un buco nero da dover far proprio, idealmente rappresentato dall'ipnotico giro di basso di Wyman. Anche la successiva canzone, Stupid Girl, è un manifesto contro la donna, dedita solo ad occuparsi di cose futile nella vita (vedi la canzone precedente). Sempre sugli scudi il duo Watts/Wyman, ma i riff secchi di Richards e la voce da oca nel ritornello di Jegger tolgono il senso di malinconia che si respiravca in Paint It, Black. Lady Jane è invece una dolce ballata d'amore, dove stavolta come protagonista è il dulcimer suonato da Jones. Il suono si sporca con Under My Thumb, dove Jones suona l'ennesimo strumento diverso, la marimba. Un Jegger guascone, firma un altro pezzo dove la sottomissione della donna e la sua inferiorità sull'uomo (tema che sarà uno dei capi saldi del nascente hard rock) la fa da padrone (Under my thumb/ The Girl who once had me down/ Under my thumb/ The girl who once pushed me around/ It's down to me.."). Doncha Bother Me e Think si possono legare insieme. Il primo un pezzo blues con tanto di armonica (ancora Jones), il secondo un pezzo blues-rock dove i 5 elementi raggiungo si equilibrano a vicenda, un modo di suonare che sarà ripreso anche negli album successivi. Flight 505 si apre con il pianoforte, ed è forse l'unica canzone dall'animo beat, ma è disordinata, scomposta: un aereo senza controllo in caduta libera (No idea of my destination and feeling pretty bad) . Altra chicca è il country blues di High and Dry, che insieme alla vivace Its No Easy, portano alla splendida I'm Waiting. Jones riprende un a suonar il dulcimer che insieme al basso di Wynam richiamano il disincanto di inizio album, espresso dalle parole di Jegger (I am waiting, I am waiting/ Waiting for someone to come out of somewhere ). L'album si chiude con Going Home, spettacolare canzone in free form di 11 minuti. Immenso il lavoro di Wyman al basso, precise le chitarre di Richards e Jones, con un Jegger che cavalca tutti gli strumenti con una prestazione vocale da incorniciare. Le pietre incominciarono definitivamente a rotolare...

N.B: la versione di Aftermath tratta è quella uscita in Usa. Nella versione inglese ci sono 3 canzoni in più (la prima la splendita Mother's Little Helper) e l'ordine delle tracce è diverso ma non c'è Paint It, Black.



Sciarpi.

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