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domenica 21 dicembre 2008

Mudhoney

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I Mudhoney sono un (...IL) gruppo garage rock di seattle, uno dei primi (e più importanti) del movimento GRUNGE. Durante la loro carriera, hanno rilasciato alcuni capolavori e una serie di ottimi album, seguendo una certa evoluzione artistica che ha permesso loro di non sgretolarsi nei meandri del manierismo (pur restando sempre fedelissimi al loro sound) e nelle pagine di cronaca nera.
i 2 fondatori della band, Mark Arm(voce) e Steve Turner(chitarra), provengono dall'ultima formazione dei GREEN RIVER. La band fu assemblata nel 1988, con alla batteria Dan Peters ed al basso Matt Lukin proveniente dai MELVINS.
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L'esordio lo abbiamo nel 1988 con l'ep Superfuzz Bigmuff (in seguitito ristampato come un lp vero e proprio, con all'aggiunta di una serie di singoli nella tracklist), un concentrato di rude potenza e sporcizia sonora con chiari riferimenti agli Stooges, MC5, Blue Cheer, Hendrix, Grateful Dead ed ai seattleiani The Sonics. C'è la ripresa dei '60, sopratutto del sound di Detroit, adesso sotto una luce tutta nuova,e veicolata per altri finie con altri toni.
L'impatto dell' ep nell'immaginario rock fu devastante, la scandalosa "touch me i'm sick" divenne presto una hit alternative (ed un inno generazionale). nell'ep c'è una tale nevrosi da far impallidire chiunque; un cantato monotono e cantilenante, gracchiante e cartavetrato, come le chitarre superfuzzose di Steve Turner, ma forse la vera forza trainante dei primissimi mudhoney è la sezione ritmica, e in particolare quella bestia di batterista invasato che sapaccava il culo brano dopo brano, in modo sempre diverso (e questa è la sua grande forza, e la forza dei primissimi mudhoney).
"In Out Of Grace" è uno stendardo dove sventola tutto lo splendore marcio della band, e tutta la ricchezza del loro sound, Mark Arm spara sentenze sotto un fuoco incrociato di assoli. "If I Think" è uno degli episodi sviluppati meglio, con una partenza agrodolceriflessiva che finisce per corrompersi nella baraonda bestiale che solo i mudhoney possono fare, anche se con deliziosi inserti melodici, gli unici che in questo ep avrete modo si saggiare.
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Mudhoney [1989] è un disco imprescindibile, proprio perchè è la completa realizzazione degli intenti contenuti nell'ep precedente, che si concretizzano in una mazzata ancora più dura, rifinita (pur restando essenzialmente ruspantee)ed assestata; l'influenza dell'hardcore (sempre presente nel background della band) si fa sentire, e nel confezionare i 12 pezzi del disco, non ne sfugge uno che non sia una bomba.
vediamo ora qualche brano: "Flat Out Fucked" è una cantilena distorta e fiammante; i riff di "This Gift" portano la ruvidezza al limite del thrash; "Get Into Yours" è una concitata rincorsa all'ultimo respiro tra i 4 'honey, forse uno dei brani più orecchiabili, sicuramente uno di quelli con più groove; "You Got It" mi rocorda parecchio i primissimi soundgarden (quelli di "screaming life", "fopp" e "ultramega ok"); tutto poi rallenta nella acida "Come to Mind" dove il blues si fa psichedelia e la psichedlia si fa blues, l'acqua si trasforma in vino, i pani si trasformano in pesci e i lebbrosi si alzano, camminano e si fanno di LSD.
La barcollante "Running Loaded" introduce quel minimo sindacale di melodia, "The Farther I Go" ha un incipit quasi motorheadiano.... mentre la canzone in se assomiglia più a qualcosa dei Dead Kennedys.
in realtà il vero capolavoro lo troviamo alla fine del disco, e si intitola "Dead Love"..... stoner ante litteram? una cosa è certa: questo disco è un album seminale, e di certo non lo è solo per la storia del GRUNGE.
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Every Good Boy Deserves Fudge [1991] è ancora più "quadrato", rifinito, e professionale. il sound della band incomincia a crescere e ad assorbire elementi nuovi come il surf di "Fuzz Gun 91" l'uso dell'organo in "Check Out Time" e di una armonica in "Pokin' Around", per il resto, si tratta di una riproposizione della vecchia roba sotto una nuova pelle. brano notevole è invece "Broken Hands", malinconica ed intensa, dal finale in grande stile.
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Piece Of Cake [1992] rappresenta l'approdo su major ed il tentativo (questa volta riuscito) di fare qualcosa di nuovo. l'honey-sound resta fedele a se stesso, pur essendo ora molto più arioso e ricco di spunti eterogenei; i toni sono molto più surf/punkeggianti, ma sempre impiantati nel Detroitismo garage nevrotico (questa volta più allegrotto); sul piano tecnico-compositivo io avverto una certa crescita, sopratutto in Steeve e Matt(ora molto più aggressivo).
l'intro è una caricatura alla techno, proprio in un momento storico in cui l'elettronica stava sfondando (allo stesso modo del grunge) nelle vendite.
"Make It Now" superlativa, un brano che spazia lisergicamente in tutto il panorama rock abrasivo immaginabile dall'uomo e va oltre, confezionando un capolavoro,pochi minuti ma è una conquista per l'umanità, o meglio, per quella fetta di umanità a cui piacciono le zozzerie musicali, una fetta di torta... appunto.
ma l'album ci riserva tante sorprese, come per esempio il country-rythm&blues-southern-garage-rock di "When In Rome", un brano limpido e solare, direi quasi che è una potenziale hit estiva, una di quelle per pogare sotto l'ombrellone, magari con l'ombrellone stesso.
In "Suck You Dry", la band fa carne da macello... suona come una marcia funebre hardcore.
Torniamo a fare gli spiaggisti, i bagnanti o i tipi da spiaggia con "Blinding Sun", davvero spiaggiante...ops...spiazzante, sopratutto la parte di batteria. il pezzo suona come quel mix visto prima di rock americanaccio mezzo blueseggiante mezzo sudista e mezzo matto. un altro piccolo capolavoro.
"Youth Body Expression Explosion" introduce psichedelia pesante, quasi space rock per certi versi... ma si tratta solo di un intermezzo (quest'album è pieno di intermezzi simili) di un minuto e quaranta secondi.
le meraviglie del disco sono tante ed è impossibile passarle tutte in rassegna, ma almeno una menzione alla ballatona country-folk "Acetone" (episodio unico nella discografia degli 'honey. che sia l'ennesima presa per culo (dopo lo sfottò alla musica sinfonica nell'album precedente, lo sfottò alla techno e gli intermezzi western....) o un brano serio, non ci è dato saperlo.... però a me piace un sacco, contribuisce ad arricchire la varietà dalla proposta sonora del disco.
la gran puttanata è che questo "Piece Of Cake" non è stato capito da nessuno (o quasi), infatti ha totalizzato scarsissime vendite.
a questo punto la band si prende una pausa di 3 anni fatta di stanchi lavori compilatori, uno sfortunato ep, collaborazioni(tra cui evidenzierei la partecipazione alla soundreack di "judgment night", con un brano crossover composto con il rapper Mix-A-Lot), progetti paralleli (tra cui spiccano i Monkeywrench di Mark e Steve).
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My Brother And The Cow [1995] puro e semplice garage rock con sfumature rhythm&blues(peraltro abbastanza sbiadite). "Generation Spokesmodel" è una sincera e sentita decica a Kurt Cobain (che in vita citava sempre i mudhoney tra le sue più importanti influenze). un poco sincero ritorno alle origini(anche segnato dal ritorno alla produzione di Jack Endino, allontanato nei 2 album precedenti), che in realtà è un modo per provare a riconquistare i fan che avevano girato le spalle al gruppo dopo "Piece Of Cake". "Into Your Shtick" è una botta terribile, cattivissima invettiva contro la vedova di Cobain, il brano più autoreferenziale del disco, ma forse anche il più bello, nella sua amarezza e ed estrema dinamicità compositiva(e anche nel cantato, questa volta è davvero sputato in faccia a chi ascolta). "Today, Is A Good Day" ha uno di quei ritornelli che ti si fissano in mente e non puoi più cancellare, ma del resto del brano non c'è poi molto da dire, così come non c'è molto da dire per gran parte dei pezzi del disco: si tratta della rifrittura degli stratagemmi dei primi 2 album, solo che questa volta sono appunto degli "stratagemmi", mentre quando i mudhoney suonavano i brani di "SUPERFUZZ BIGMUFF", era tutto spontaneo come un rutto dopo pranzo.
però dobbiamo dare atto di una cosa ai nostri carissimi mudhoney: quest'album è troppo stradaiolo, se lo infilate nello stereo dell'auto, non vorrà più uscire, vi si pianta proprio li, mentre guidate e vi sballa la guida! non vorrei essere nei panni dei passeggeri/pedoni/conducentidimezziadiacenti mentre scorre l'ultimo brano(effettivo), "1995"... questo è ultradistorto, pompatissimo, quasi psych-stoner (e qua i mudhoney preannunciano certe sonorità che ricorreranno negli album successivi) con tanto di finale con sassofono.
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Tomorrow Hits Today [1998] Jim Dickinson sostituisce Endino, e l'album viene fuori con la stessa solennità con cui dio di rivela all'uomo: un ritorno sperato, atteso, e finalmente arrivato 3 anni dopo una delusione(quasi)totale.
il sound è molto professional(infatti è la prima volta che gli 'honey decidono di utilizzare i soldini messi a loro disposizione dalla casa discografica), moderno, fresco, quasi un debutto!
"A Thousand Forms Of Mind" è un inizio da infarto, con uno space-blues spettacolare, Mark è assolutamente in forma, Jimi...ops..Steve Turner sembra ringiovanito e rincazzutito, e finalmente torna la sezione ritmica varia e multiforme a cui eravamo abituati! ascoltate che piacevole varietà di suoni e soluzioni in un solo brano!
ogni brano è messo perfettamente a fuoco, ed ogni singolo pezzo contiene tante influenze d'ogni tipo (come in "piece of cake", ma qua il tutto sembra più omogeneo); "Try To Be Kind" rasenta zone d'ombra in cui il rhythm&blues spaziale si mischia al boogie e ad alcune ventate jazzy!
in "Poisoned Water" emerge lo spirito psichedelico della band, e nella seguente "Real Low Vibe" c'è tutto un vibrante blues massiccio che si scatena fino a intraprendere strade hendrixiane molto tortuose, che conducono all'intro tribale di "This Is The Life", un altro pezzo taglia-asfalto.
"Move With The Wind" è un pezzo assolutamente atipico per i mudhoney, è quasi soul (ma lo immaginate Mark Arm che fa una cosa del genere?), peraltro interpretato in modo perfetto.... in questo pezzo, la solita furia tipica della band è piuttosto strisciante, quasi compressa, pronta a saltar fuori alla prima occasione....che non rarderà ad arrivare.......infatti "Ghost" si regge su un giro blues che sa quasi si house(se la remixi, viene fuori tranquillamente una megahit da discoteca).....e in questo pezzo, Mark vomita l'anima sul microfono. attenti all'assolo finale.
"I Will Fight No More" è un superbo lento strumentale, un intro massiccio con risvolti psichedelici che serve ad introdurre il pezzo forte dell'album: l'oscura e fumosa "Beneath The Valley Of The Underdog". tutto l'album è uno spettacolo. beh, fate conto che l'ultimo brano è il più bello di tutti; un blues robotizzato, alienato ed alienante, un concentrato di inquietudine pesantissima tradotta in musica. Mark Arm sembra un santone o un prete che dice messa, al pari del miglior Ozzy.
Quest'album contiene le migliori prestazioni di Mark Arm come cantante.
Dopo il 1998, una serie di eventi fa traballare la line up dei mudhoney, Lukin lascia la band, che spesso è anche senza bassista (impegnato in diversi progetti), così Mark e Steve tornano a dedicarsi al loro side project e la band si scioglie, rilasciando anche una doppia antologia ("March Of Fuzz").
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Since We've Become Translucent [2002]
il 2002 verrà ricordato come l'anno del ritorno alla ribalta di mezza scena grunge (quasi tutta quella vivente): "Songs for the deaf", fenomeno dell'anno ospita ben 2 sangue blu del grunge (nobilitati dal passato Screaming Trees e Nirvana); torna Jerry Cantrell (ex alice in chains); tornano i Pearl Jam con "Riot Act"; torna Chris Cornell , con la superband Audioslave; tornana Mark Lanegan solista................ si assiste ad una nuova ondata di manierismo pseudo-neo-grunge in tutto il mondo.............
............e tornano i MUDHONEY, completamente rinnovati (cambio di etichetta, line up, e stile).
La novità principale è l'ampio uso di fiati nei brani. il substrato è sempre garage, anche se la tendenza allo stoner c'è sempre, sopratutto nel trip iniziale di ben 8 minuti (impensabile un tale minutaggio per i vecchi 'honey) intitolato "Baby Can You Dig The Light": chitarre liquidissime, acide, fiati, effetti su effetti, distorsioni su distorsioni, nulla è più come prima. a questo punto è spontaneo pensare che i mudhoney siano tornati, un'altra volta e anche questa volta, in grande stile................ ma tutto questo è vero solo per metà: l'album, seppur molto compatto e ben sviluppato non sempre regge il confronto con il brano d'apertura, e lascia un certo amaro in bocca.
comunque si tratta di un disco interessantissimo, ed è innegabile che l'evoluzione nel sound dei mudhoney C'è STATA!
ottime canzoni sono "The Straight Life" (il brano più leggerino del disco.... ma cazzo, mozza il fiato!) e "What The Flavor Is"; mentre la conclusiva "Sonic Infusion" è l'unico brano in grado di riprendere il discorso d'apertura e premere l'acceleratore verso il versante psych-stoner, infatti il risultato è sbalorditivo(mi ricorda addirittura i primi Monster Magnet).
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Under A Billion Suns [2006]
La linea è quella solare e strombazzata del precedente lavoro. ampia presenza della psichedelia e dei fiati, e l'unica sostanziale novità sta nel fatto che ogni singolo brano pare essere stato più curato e perfezionato.
tanto per fare un esempio, "Hard-On For War" è un pezzo stoner pressocchè perfetto.... ci sono tutti i trucchetti del genere: è tutta lava che cola, è un lanciafiamme che sputa fuoco e rock come DIO comanda.
"In Search Of" ricorda i Fu Manchu già dal titolo...(in realtà questo brano è molto più psichedelico del repertorio medio dei Fu Manchu, ma il paragone ci sta per via del simile background delle 2 band) si tratta di uno dei pezzi più sfollagente dei mudhoney, che finalmente tornano per riprendersi quanto a loro spetta, ed appropriarsi di quello stoner che loro avevano anticipato in certi episodi, sin dagli esordi.
"Blindspots" non è altro che la centrifuga finale(tra psichedelia, hard rock, rocknroll, fino al twist), con la quale la band ci lascia, fino al prossimo zozzissimo album.

INCHINO




John

sabato 20 dicembre 2008

Green River

I Green River li ricordiamo perchè:
1. sono stati una delle prime band ad unire punk, garage ed hard rock pre-metal;
2. sono stati la prima band grunge;
3. hanno influenzato direttamente e indirettamente tutta la storia del movimento (direttamente, perchè dallo scioglimento del gruppo sono nati i mudhoney, i mother love bone ed i pearl jam; indirettamente, perchè tutta la neonata scena rock underground seattleiana fu influenzata stilisticamente da loro)
La band prese il suo nome da un serial killer di seattle.
I membri dei GR erano: il cantante Mark McLaughlin, detto "Arm" (poi fondatore dei Mudhoney); il chitarrista Steve Turner (che dopo il primo EP lascerà il gruppo e fonderà con Arm i Mudhoney); il chitarrista Stone Gossard (poi fondatore dei Mother Love Bone e dei Pearl Jam); il bassista Jeff Ament (poi fondatore, con Stonr dei Mother Love Bone e dei Pearl Jam) ed il batterista Alex Vincent.
Nei Green River ci sono sempre state 2 correnti di pensiero, 2 "partiti", quello ARM-TURNER (che avevano un background punk ed erano devoti al rock dei '60s), e quello AMENT-GOSSARD (appassionati di metal, glam ed hard rock, il primo adorava i Venom e per questo era sfottuto da Mark, ed il secondo adorava i Kiss ed aveva una certa attitudine glam che lo spinse ad acquistare degli zatteroni di dubbio gusto).
Lo stile stesso dei GR è un derivato di questa loro natura duplice (da una parte punk dall'altra hard rock), che li portò a forgiare un sound che agli esordi non fu capito da nessuno.
Le contraddizioni della band non tardarono a saltare fuori, e a trasformarsi da propulsore di un sound contaminato a sorgente li incomprensioni e dissidi innanzitutto artistici. per esempio, prima di uno show, Jeff Ament litigò pesantemente con Mark Arm perchè il primo non intendeva suonare una certa cover degli Stooges poichè reputava troppo semplice la parte di basso.
I Contrasti interni alla band erano dovuti anche al diverso background culturale-ideologico (o banalmente alle diverse aspirazioni delle 2 band), infatti il punto di snervamento definitivo dei rapporti all'interno della band si ebbe quando, in occasione di un concerto, si doveva distribuire degli inviti e Mark Arm intendeva far entrare gratis i suoi amici, mentre Stone Gossard preferì invitare alcuni rappresentanti di Major (tra i quali solo 2 accettarono l'invito... ). Questa storiella scandalizzò l'incorruttibile Mark (così incorruttibile, che comunque non tardò a firmare con una Major, nei Mudhoney, nel '92..... proprio quando capì che col """grunge""" ci potevi fare i soldi), lo turbò così tanto, che non appena la nuova band multimilionaria di Stone sfondò con "Ten", Mark tirò fuori quella storia, tanto per sputtanare Stone e Jeff, e descriverli come degli opportunisti cacciatori di affari (ed è da qua che deriva la repulsione di Kurt Cobain verso i Pearl Jam).
Steve Turner, lascerà la band dopo la realizzazione del primo EP, poi la band registrerà senza di lui, 2 altri dischi.
Quando, la sera di Halloween dell'87, Mark raggiunge la band in sala prove, Jeff e Stone gli comunicano che era la fine dei Green River, e così Mark Arm se ne va, sbattendo la porta.
Da tempo, Stone e Jeff erano in contatto con Andy Wood, cantante dei Malfunkshun, con il quale fonderanno i Mother Love Bone, gruppo dalle coordinate musicali più vicine allo street rock e agli Aerosmith che a quanto ascoltato nei Green River. La prematura morte di Andy Wood porterà alla nascita dei Pearl Jam.
Steve e Mark invece fonderanno i Thrown-Ups, coi quali pubblicheranno 3 EP, e in seguito i Mudhoney, dediti ad un grezzissimo garage rock.
Partiti insieme nell' 84, questi ragazzi, dopo 3 anni si separano per sempre, in 2 tronconi, finendo col creare opposte "fazioni" all'interno della stessa scena.
Nel 2005, Eddie Vedder, varie volte nel tour dei Pearl Jam, chiama sul palco Mark Arm e Steve Turner per eseguire, insieme ai vecchi compagni Stone e Jeff "Kick Out The Jams" e "Rocking In A Free World".... emozionante? no, molto di più.


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Come On Down [1985]
Soli 6 brani, per un ep, che in fin dei conti, sarà ineguagliato in fatto di intensità da parte della band.
"Come On Down" è il battesimo del nuovo corso musicale seattleiano, brano che da titolo al disco e pezzo più bello, grazie ai suoi riffs granitici(quasi sabbathiani),a quel ritmo marziale ed alla ubriaca voce di Mark Arm, istrionico come Iggy Pop, dirompente come Johnny Rotten. "Swallow My Pride" è la vera hit della band (sempre se di hit si può parlare, visto che questo disco ebbe un riscontro di vendite così basso da costare alla band la sfiducia della casa discografica, ed il conseguente cambio di etichetta, dalla Homestead alla neonata SubPop) che fu poi coverizzata in "Fopp" dei Soundgarden e dai Pearl Jam nel singolo natalizio del 1995. "Ride Of Your Life" inizia con una cavalcata hardcore, poi esplode in una tempesta di stop and go, e un memorabile assolo finale che sa di metal primordiale. "Corner Of My Eye" è costituita da una ossessiva ripetizione di riff e ritornello in modo martellante, tant'è che solo sul finire del brano si svelano gli intenti nichilisti, in un assalto sonoro raggelante by Vincent/Ament.
Dopo la pubblicazione dell'ep, Steve Turner lascia la band perchè infastidito dalle pose metallare di Gossard ed Ament.

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Dry As A Bone [1987]
Un altro EP, 5 bran. La band non cambia sostanzialmente lo stile, ma risulta più dinamica, la struttura dei brani è più ariosa (ed il minutaggio lo dimostra). Jeff Ament è cresciuto molto, ed è già una colonna portante del gruppo, ed anche grazie al suo apporto in fase compositiva, il gruppo, in questo ep, sembra più orientato verso pezzi tirati e velati di metallo. Memorabile "P.C.C." e il piccolo gioiello intitolato "This Town".
è il vero debutto dei Green River, ed è il debutto della SubPop; da questo momento in poi, una cosa tirerà l'altra e nulla sarà più come prima. La storia della nascita, dei successi, e del declino della SubPop è parallela alla storia del grunge, che ha visto in essa un formidabile veicolo.

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Rehab Doll [1988]
il primo (e unico) LP è in realtà un album postumo, inquanto la band, al momento dell'uscita del disco, era già sciolta.
La qualità è nettamente superiore a quella degli EP precedenti: "Searchin" mostra la vena garage di Stone Gossard, questa volta in una delle sue migliori prestazioni, con una chiarra grezza e minimal, ma affilata e sempre sul punto di esplodere. "Forever Means" è l'epidodio più metallizzato del disco, dove la schizzofrenia ed il tormento espressi nel cantato di Mark, hanno il loro contrappunto nelle rasoiate diaboliche di Stone. la title track è frullato di soni e rumoracci tra l'asprezza garage e la pesantezza del rock più pesante, così come avviene in "Smiling And Dyin", dove Jeff si diverte e ci diverte un po col suo basso, e come avviene nella nuova veste di "Swallow My Pride", nella scazzottata hardcore/pre-metal intitolata "Porkfist", tra i black flag ed i primi motorhead. "One More Stitch" rappresenta il tentativo di apportare delle variazioni al sound della band, attraverso l'alternanza tra acustico/elettrico, che presto sarà un espediente molto ricorrente nel seattle sound (e derivati).


John

giovedì 18 dicembre 2008

Temple of The Dog

I Mother Love Bone ci misero pochissimo a trasformarsi da promessa rock mondiale a fenomeno archiviato e messo da parte, dopo la morte per over dose di Andrew Woods, infatti nessuno dopo se la sentì di portare avanti quel progetto senza il capitano del rock dell'amore e la casa discografica, che su quel gruppo aveva scommesso, non fece nemmeno promozione all'album appena uscito.
Fu un duro colpo per Stone e Jeff, che ancora una volta furono costretti a ripartire da zero; ma fu un duro colpo anche per qualcuno che non militava nei Mother Love Bone, ma che conosceva benissimo Andy, perchè aveva vissuto con lui un po di tempo (e lo aveva aiutato ad affrontare i suoi problemi con la droga), sto parlando di Chris Cornell.
Chris si reca in Europa, per allontanarsi dai posti che gli ricordavano l'amico scopmarso, si immerge nel suo dolore, e soffre perchè non può parlarne con nessuno che avesse conosciuto bene Andy.
Nel suo periodo trascorso in Europa, il cantante dei Soundgarden scrisse di getto "Say Hello To Heaven" e "Reach Down", poi una serie di altri brani, che presto si accorse non essere molto compatibili con lo stile dei Soundgarden, ma molto più vicini al songwriting di Stone & Jeff nei Mother Love Bone.
Contemporaneamente Stone, stava jammando liberamente nello scantinato dei suoi genitori con Stone e un nuovo acquisto: Mike McCready. Fu in quel periodo che tramite i Red Hot, Jeff si mise in contatto con Eddie Vedder. Da quelle Jam nacquero gli "Stone Gossard Demos", una serie di brani tra cui "Pushing Forward Back" e "Times Of Trouble".
Alle jam di Stone stava partecipando anche Matt Cameron, allora batterista dei Soundgarden (la cosa buffa è che Matt stava suonando pezzi come "Alive" e "Black" prima ancora che si chiamassero così e ben 8 anni prima di entrare nei pearl jam).
Chris, Stone e Jeff pensarono di unire le loro forze per realizzare un album-tributo a Andy Woods. in un primo tempo intendevano rimettersi a lavoro su alcuni demo di Andy e materiale inedito dei Mother Love Bone, ma Xana (la ragazza di Andy) era contraria ad una speculazione sul suo ragazzo; così Stone e Chris misero insieme i pezzi scritti separatamente, ne scrissero di nuovi e approntarono una superband: Matt Cameron(batteria) e Chris Cornell (voce e chitarra) dei Soundgarden; Jeff & Stone e Mike McCready(chitarra solista) di quelli che sarebbero poi stati i Pearl Jam.
Il progetto prese il nome da un verso di un brano dei Mother Love Bone, "Man Of The Golden Words": TEMPLE OF THE DOG.
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all'interno del booklet dell'album c'è un piccola presentazione del progetto scritta a mano da Jeff Ament, come fatto anche nei Mother Love Bone.
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in "Say hello 2 heaven", Chris canta: "Venne da un isola / e morì in una strada /Si ferì... / ma non mi disse mai niente / Saluta il paradiso / Nuovo come un bambino / perso come una preghiera / il cielo era il tuo luogo di divertimento /ma la terra fredda fu il tuo letto". il brano è una preghiera disperata, infatti inizia proprio con un'invocazione alla "madre misericordiosa". il fatto di "salutare il paradiso" riprende quella tecnica tipica di Andy consistente nell'uso di metafore religiose.
"Reach down" propone un blues teatrale estremamente toccante, in cui viene fuori Mike McCready, in un assolo interminabile. 11 minuti di poesia e passione. "Ho fatto un sogno l’altra notte/ Eri in un bar, eri seduto in un angolo / indossavi una lunga giacca di pelle bianca / e occhiali viola, e avevi la brillantina nei capelli / ti dissi: hey questo è il posto dove starò / e un giorno ti offrirò da bere".
"Hunger strike" è un pezzo morbido, che propone un duetto memorabile Cris Cornell / Eddie Vedder (al suo esordio discografico come cantante).
"Pushin forward back" è il brano più duro dell'album. La ballata zeppeliniana "Call me a dog" ripropone un blues soave guidato dalle impennate di Chris e dal trasoporto metafisico di Mike. "Times of trouble" è tristissima, Cornell suona anche l'armonica, e recita in questo modo: "Quando il cucchiaio è caldo / e l’ago è appuntito / e tu lo spingi / posso sentire ciò che dici / che il mondo nero [...] Non provare a farlo / non provare ad ammazzare il tuo tempo / potresti farlo [...] so che giocavi ma / qualche volta le regole sono dure" e conclude con un imperativo molto chiaro e che non richiede una difficile interpretazione: "devi afferrare il tuo tempo fino a sfinirti / attraversa questi tempi di guai". una delle liriche più intense ed intelligenti mai scritte da Chris. torna la metafora religiosa in "Wodden Jesus", ed una sferzata energica in "Your saviour", dove in basso di Jeff e la batteria di Matt creano un groove oscuro e nevrotico, quasi tremante, ciò che emerge è la sofferenza, la sofferenza che si trasforma in suono. "Four walled world" ha l'epicità tipica del Gossard degli esordi, e risplende grazie ad un cantato in un costante crescendo di pathos e intensità, anche sottolineato dallo straordinario assolo di Mike, molto corale e coerente col brano stesso. "All night thing" è la conclusione del disco, con toni molto più leggeri e pacati, il cantante (si) vuole rassicurare, questo pezzo è la fine della tempesta notturna(di quella notte citata mille volte nei testi).... e l'inizio della quiete, perchè la vita risorgerà sempre.



John

mercoledì 17 dicembre 2008

TAD





Una ragazza tanto bisognosa di affetto alza la cornetta, compone il numero, ed esprime in modo non equivoco la sua voglia... dall'altro capo del telefono risponde un uomo lardoso, barbuto e coi capelli grassi, che apprezza notevolmente l'invito della donna........... che al momento della sua risposta, capisce d'aver sbagliato numero.


Questa scena è tratta dal film "Singles - L'amore è un gioco", e l'uomo lardoso è il mitico Tad Doyle, ex-macellaio(è vero!) e forntman di una delle più """pesanti""" band del panorama grunge: i TAD. è giunto il momento di rendere un po di giustizia a questi ragazzi: non ne parla nessuno e chi lo fa, dice le solite storie su come fossero zozzoni e grezzi, dimenticando di dire che sono stati uno dei fenomeni più interessanti di tutta la scena, capaci di elaborare uno stile personale e ricercato. I TAD sono stati l'altra faccia di Seattle, quella nata e morta underground, quella che non è mai stata sotto i riflettori, e che non è mai stata cagata dalle grandi masse.... e ne era fiera. Lo stile dei Tad era a metà tra il metal (tra il premetal anni 70 e il thrash) e hardcore albinianamente inteso (Steve Albini fu anche loro produttore). Facile paragonarli ai Mudhoney, per via della loro comune passione verso gli Stooges, ma non possiamo identificarli, poichè si tratta di esperienze musicali per certi versi opposte. I Mudhoney erano tradizionalisti, invece i Tad erano in un certo senso modernisti (basti pensare alla loro tendenza allo sfumare verso l'industrial o ai loro ritmi quasi techno); entrambe le band propongono grezzume a valanga, ma i Tad hanno una pesante componente metallica che ai Mudhoney manca. La band si costituisce nell'88 e un anno dopo rilascia per la SubPop un debutto blasfemo e truce: God's Balls, prodotto da Jack Endino (degli Skin Yard, band di provenienza del batterista dei Tad, Steve Wied), diviso in 2 facciate, la prima intitolata "Jesus" e la seconda intitolata "Judas". Tutto l'album è una sfilata di suoni e immagini orribilanti, una fusione acida e sincopata tra hard rock ed hardcore. brani imperdibili: "Satan's Chainsaw" e "Behemoth". I Tad seguono i Nirvana nel tour di Bleach. Salt Lick [1990] fu prodotto da Steve Albini (ideatore dei progetti Big Black e Rapeman negli 80), e infatti ne assorbe le coordinate stilistiche e compositive. il risultato è un album più maturo del precedente, che non risparmia alcune piacevoli sorprese, come l'apertura melodica di "Glue Machine". "Potlatch" ricorda i Big Black ed i Ministry, mentre "Hibernation" preannuncia qualcosa che succederà negli Helmet.
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8-Way Santa [1991] chiude la parentesi SubPop dei Tad, e lo fa per certi versi nel migliore dei modi (con un'altra crescita compositiva), per altri nel peggiore (perchè il disco ebbe parecchi problemi giudiziari e pochissimi riscontri nelle vendite). il sound è più preciso e professionale(ottima la produzione di Butch Vig), e la melodia comincia a prendere il sopravvento,anche con certe ventate powerpop che tenderanno ad arrotondare gli spigoli della proposta sonora dei Tad.
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Inhaler [1993] rappresenta il passaggio a major ed è, a mio avviso, l'album più accessibile e meglio strutturato tra quelli dei Tad (anche perchè Tad Doyle ora ha imparato..........a cantare).
Josh Sinder passa alla batteria e alla produzione c'è J. Mascis.
"Grease Box" è un inizio tritatutto, con una buona dose di hardcore su un sostrato metal e powerpop; "Throat Locust" è un frullato di Big Black e Black Flag; "Leafy Incline" è tutta da canticchiare o urlare a squarciagola in auto, perchè difficilmente vi toglierete dalla testa quel ritornello; "Luminol" si apre con un riff marcatamente metal, poi segue un grugnito stile Rapeman e una serie di colpi sincopati e martellanti basso-batteria che assomigliano a mitragliate, tanto che sembrano provenire da "the land of rape and honey", poi segue un'inaspettata (e bellissima) apertura acustica che spezza l'atmosfera truce di prima, ma solo per poco, e dopo un'altra ancora, ancora più lunga e questa volta accompagnata anche dal pianoforte, prima del cazziatone finale.
"Ulcer" e "Lycanthrope" portano un'altra pioggia di grezzume una pioggia bollente ed abrasiva; notevoli sopratutto nel secondo brano gli assoli di chitarra (su quest'album sono lussureggianti ed onnipresenti). "Just Bought the Farm" è la convergenza tra punk, noise e in un certo senso new wave(!?!?), questo tanto per dirvi quanto sia vario lo spettro stilistico dei Tad e quanto di sbaglino quelli che li definiscono come dei grezzi rockettari di vecchio stampo. questo brano ne è la dimostrazione, perchè sembra la sintesi di quello che è successo dal 77 al 93, infatti sembra di passare dal punk a tutte le sue incarnazioni ottantiane (hc, new vave e noise) in ogni singolo istante, in un brano tormentato e palpitante, portatore delle inquietudini di diverse generazioni.
in "Rotor", "Paregoric"(come fare l'elettroencefalogramma ad un martello pneomatico) e "Pansy" si ribadiscono i concetti visti fin ora e si consolida la formula di INHALER, grandissima prova discografica che si conclude con un brano atipico, l'acustica powerballad intitolata "Gouge".
La band va in tour con i Soundgarden, poi viene scaricata dalla casa discografica a causa di una locandina raffigurante Clinton che fuma uno spinello con sotto la scritta "This Is Heavy Shit".
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Infrared Ridinghood [1995] è un'ulteriore concessione alla melodia ed all'ascoltabilità, dopo il quale la band cadrà nell'oblio.


John


domenica 14 dicembre 2008

Control Denied - The Fragile Art Of Existence (1999)



Etichetta: Nuclear Blast
Anno: 1999

Line Up:
Tim Aymar - Vocals
Chuck Schuldiner - Guitar
Shannon Hamm - Guitar
Steve DiGiorgio - Bass
Richard Christy - Drums

Tracklist:
1) Consumed
2) Breaking The Broken
3) Expect The Unexpected
4) What If...?
5) When The Link Becomes Missing
6) Believe
7) Cut Down
8) The Fragile Art Of Existence

Dopo questi capolavori, Chuck scrive gli ultimi suoi cinquanta minuti di musica. L'epitaffio di un grande artista, un disco che musicalmente sembra semplice (certo, rispetto i Death, ma stiamo scherzando!), ma che ascoltato attentamente svariate volte porta a chiederti tante cose, soprattutto se quest'ultime, sono rappresentate dai testi.
Formazione di tutto rispetto come sempre per Chuck, sono più o meno, compagni che gli sono stati vicino durante l'avventura coi Death. E sembra quasi strano (a questo punto ecco il mio primo "quesito") chiedersi se sia una coincidenza o cosa, che proprio con il suo vero e proprio ultimo disco, Chuck, abbia scelto gente pescata da vecchie formazioni della sua band.
Strano il destino, a volte...
Steve DiGiorgio al basso (Breaking The Broken!), Shannon Hamm alla chitarra, Richard Christy alla batteria e Tim Aymar alla voce. Avevo molti dubbi su questo cantante all'inizio, ma col passare del tempo (e ce n'è voluto!) l'ho cominciato ad apprezzare appieno: oggi posso dire che anche questo "The Fragile Art" è un'altra gemma, e di conseguenza affermare che Chuck non ne ha sbagliata una.
Tim proviene da un background differente, si sempre metal, ma appartenente ad una realtà più underground, e forse anche il fatto di rischiare per Chuck rappresentava una sfida, e avrebbe dato più forza alla band intera.
Il risultato è un'ora di musica che rasenta la poesia, ascoltare il break melodico nella titletrack oggi, mi fa ancora emozionare come un bimbo; la cosa che più mi fa venire i brividi, e sentire un nodo in gola, sono quelle chitarre che dapprima sembrano come spariscano nel vuoto, poi si incontrano nuovamente, pronte a sposarsi per l'eternità, come in un illegale ma sincero patto di sangue. E sembra tutto fottutamente strano...
Le liriche suggellano stati emotivi contrastanti, "Consumed" è lacerante, quasi disorienta, con un forte richiamo a "The Philosopher" (Do you feel the pain that I feel? The pain that lives inside), più una leggera vena misteriosa che, per quanto mi riguarda, ancora devo capire bene, e mi riferisco a "Every time it is the same three words, every time the number speaks". Bella composizione, fresca e potente, con chitarre ampie e mai troppo presenti, come del resto in tutto l'album, si mantengono sempre su un suono leggero.
"Breaking The Broken" è un assalto thrasheggiante carico di potenza heavy classica, anche qui ricamata da orpelli (in senso figurativo eh!) chitarristici quasi umani, molto sentiti (mi riferisco quasi sempre al minuto 3:02. Anche testualmente fa la sua stupenda figura, dato che vuole quasi rappresentare una vendetta verso una persona che si è dimostrata falsa e cattiva (In beauty the evil is waiting for possession).
Poi ragazzi, non so che dirvi, il terzo pezzo, "Expect The Unexpected" si racconta da solo: l'inaspettato della vita, quell'entità che può darci fastidio e ostacolarci così come agevolare il nostro vissuto. E anche qui, dannazione, mi viene da pensare a ciò che poi è successo a Schuldiner ... mah ...

And when life seems to be complete it comes and knocks us off our feet
The element of surprise: the avengeful attack
Straight on your back it will send you into a state of deja-vu
Here it comes one more time showing its ugly face

La struttura del pezzo riassume tutta la genialità degli artisti presenti: le chitarre apocalittiche, il basso che vuole spingerti nel vuoto (A silent voice), ma prima ti passa alla tortura (gli assoli, dio santo!); ed infine l'attacco finale (The avengeful attack)
Quando proseguiamo con l'ascolto, ci sarà disorientamento, una traccia come "What If...?" non può far così male nonostante sia così dolce e pacata (!); un pezzo che mette in mostra (per piccole cose che adoro personalmente) le doti di Richard Christy, così come "Believe" che in alcuni punti mi ha ricordato delle cose dei Death sia da "The Sound Of Perseverance" che da "Symbolic".

C'è qualcosa di amaro in questo disco: degli occhi sospesi nel nero, delle braccia che cercano la via d'uscita, magari per vendicarsi di un destino ingiusto, e d'altronde come dargli torto?

Do you believe what some might say can't be could be reality
Let seven be the one for me; six chapters of life laced with mystery...
Awaiting discovery

Davide Montoro

Death - The Sound Of Perseverance (1998)


Etichetta: Nuclear Blast
Anno: 1998

Line Up:
Chuck Schuldiner - Guitar, Vocals
Richard Christy - Drums
Scott Clendenin - Bass
Shannon Hamm - Guitar

Tracklist:
1.Scavenger of Human Sorrow
2.Bite the Pain
3.Spirit Crusher
4.Story to Tell
5.Flesh and the Power it Holds
6.Voice of the Soul
7.To Forgive Is to Suffer
8.A Moment of Clarity

Tre anni dopo...ultimo disco in studio per i Death. Sul finire dell'estate esce "The Sound Of Perseverance", sotto Nuclear Blast, ed in una veste completamente diversa, per tutti. Chuck non ha mai nascosto il suo amore per l'heavy metal più classico, tant'è che questo disco ingloba le sonorità più classic ma non per questo meno tecniche ed entusiasmanti. A confermare questa tesi, è la cover (la seconda che i Death ci regalano, dopo "God Of Thunder" dei Kiss presente in "Human") di "Painkiller" dei Judas Priest. Il singer americano, ha nuovi compagni d'avventura: Richard Christy alla batteria, dapprima più abituato in ambiti/bands power/thrash o heavy (Demons & Wizards, Iced Earth...), Scott Clendenin e Shannon Hamm, che aiuteranno Chuck anche nel disco dei Control Denied, rispettivamente al basso e alla seconda chitarra.
Le otto tracce che compongono l'ultima opera a nome Death, sono di una forte (almeno per noi comuni mortali) e tagliano la faccia, per quanto, tante volte, barcollano aspramente su vari lidi musicali. Chuck era molto influenzato dal thrash metal '80, dal rock, dall'heavy metal classico. A questo punto, tutti questi generi, hanno subito un processo di de-strutturazione (lo ripeterò fino al vomito, certo!) tale che il thrash ora ha un taglio moderno, caratterizzato da difficoltà esecutiva secche rasoiate chitarristiche (A Moment Of Clarity) oppure il classic heavy, che, scontrandosi a morte col thrash, "favorisce" la nascita di canzoni come "Spirit Crusher".
Infine, ancora una volta con la sua impronta premonitrice, Chuck scrive ciò che la sua anima gli detta: "Voice Of The Soul" è per il sottoscritto e non solo, la strumentale heavy più bella di tutti i tempi. Prima una, poi l'interruzione della seconda, che si intreccia dolcemente in un triste arpeggio, i secondi passano ed è come se anche la nostra mente assieme a lui viaggiasse per pensare. Quando i due canali del vostro stereo diffonderanno nella stanza l'eco della chitarra, sarà l'apoteosi: ancora un arpeggio, ancora un breve assaggio solista, e poi le corde che, come un'anima che ci sta lasciando da lì a poco, si abbracciano forte per tenerci caldamente lontano dal mondo. E' l'ultimo saluto di Chuck a tutti noi.
E' un saluto però che riecheggia nel suo suono. Il suono della perseveranza, che gli permette per l'ultima volta (nei Death, eh!) di scrivere grandi testi, musiche senza tempo, con musicisti davvero in gamba. "Scavenger Of Human Sorrow" parla delle persone sadiche, coloro che amano nutrirsi della sofferenza altrui (da qui il titolo):
"...Quale sofferenza farà sua per soddisfare il tuo malsano appetito
Cominciamo ad uccidere, fatti notare sempre, prega!
Sempre al momento giusto-esulta
Nutriti del dolore, assaggia!..."
Nel primo break della canzone Clendenin stacca con un breve giro di basso, che serve a far rientrare tutti gli strumenti per il terremoto finale, di assoli sparati a folle velocità pieni di inventiva e melodia. Si prosegue, il viaggio è sofferente ed irto di ostacoli, soprattutto di persone che abusano delle parole, violentando verbalmente le persone:
"...Mordo il dolore guardando avanti, non indietro!
Mordo più forte cercando di parare la traccia di falsità ed i fendenti partoriti dalla tua anima.
Acide, le lacrime del rimorso: scorrono vane, ormai troppo tardi...
Risparmiale per il prossimo scherzo del destino..."
Cadenzata nei primi secondi, poi si frantuma in mille pezzi di scale frigie sul finale: semplicemente bella. E' la seguente "Bite The Pain", che mette in mostra anche le capacità di Scott al basso, come dimostra la seguente "Spirit Crusher" (certo, in modo minore). Questo pezzo è speciale (oddio..parla di una cosa molto triste però..) davvero.
Chuck traspone il significato della sua malattia in musica. Il tumore, lo chiama "Distruttore dell'anima" (lui venne colpito da un tumore al cervello). Ma....c'è sempre un ma...la diagnosi gli venne fatta un anno dopo. Com'è che Chuck già aveva immesso nel suo disco questo testo così? A me, sinceramente, fa pensare questo, sebbene ci siano i presupposti per pensare altre tesi, io rimarrò sempre convinto della mia, ed il testo me lo fa pensare sempre di più:
"Viene dalle profondità di un luogo sconosciuto al custode dei sogni
Se potesse ruberebbe il sole e la luna dal cielo: attento umano a vedersi, mostro nel cuore.
Non dargli riparo in te potrebbe farti a pezzi: nessuna scusa, si nutre alla luce del sole...
Distruttore d’anima, resisti e tieni duro - distruttore dell’anima...
Parlando con frasi d’odio il tipo vizioso che colpisce ed uccide
Nessuna pietà, è un piacere assaggiare il sangue che versa
Quando è tempo di nutrirsi per soddisfare il bisogno di consumare un respiro
Alcuni si alzeranno alti espirando tutto il fiato dalla voce di un'anima...".
Questo è tutto il testo...Stupendo, come sempre: una canzone tutta in crescendo che mostra il lato sensibile (mica è la prima volta) di Chuck, estremizzando il percorso musicale intrapreso dalla band (mi riferisco al cambio di tempo quasi in stile At The Gates, minuto 2:23 - io ci sento questo!). "The Sound Of Perseverance" ha ancora una "Storia Da Raccontare" intrisa di decisioni da prendere, rabbia, tristezza e ricordi del passato rinnegati. I tempi stoppati della canzone volano sino al terzo minuto, quando le chitarre toccano una superba melodia che prima si alza imponente, poi si scioglie in terra, delineando una chiusura particolarissima.
Chuck non è più cantante, ma è sempre più uno "Storyteller" pronto ad emozionarvi con la sua musica. La sua voce è più "umana", avrete notato infatti, che da "Scream Bloody Gore" ad ora, il suo screaming si è lasciato pian piano andare per lasciar posto ad un'impostazione vocale più acida. Negli ultimi venti minuti rimasti del disco, i Death ci lasciano con 3 canzoni immortali. "Flesh And The..." sembra risultare la più nervosa del lotto, sarà la tematica affrontata (lussuria e morte); "To Forgive Is To Suffer" ha un mood violento e malinconico, mentre la fine è affidata a "A Moment Of Clarity".
Ultimi otto minuti al fulmicotone, tiratissimi:
"...Spalanco i miei occhi per vedere un momento di chiarezza
[...]
La vita è come un mistero: con molti indizi, ma con poche risposte
Per indicarci cosa possiamo fare per cercare...
Messaggi che ci impediscono di arrivare alla verità..."
Perchè nella vita ci sono cose che prima o poi ti cambiano, totalmente: e queste cose ci appaiano come dinanzi uno schermo, lo schermo del nostro passato...

Davide Montoro

sabato 13 dicembre 2008

Death - Symbolic


Etichetta: Roadrunner
Anno: 1995

Line Up:
Chuck Schuldiner: Guitar, Vocals
Kelly Conlon: Bass
Bobby Koelble: Guitar
Gene Hoglan: Drums

Tracklist:
1.Symbolic
2.Zero Tolerance
3.Empty Words
4.Sacred Serenity
5.1,000 Eyes
6.Without Judgement
7.Crystal Mountain
8.Misanthrope
9.Perennial Quest

"...is a song about life...and is called The Symbolic...".
Un disco che parla della vita, un disco, che per il sottoscritto, è, la sua vita. Ritrovo me stesso ogni qualvolta rileggo le liriche di questo meraviglioso album. Un cosiddetto -evergreen- che non deve assolutamente mancare nella collezione di ogni amante della buona musica.
Era il 1995 quando uscì "Symbolic": utile sottolineare come, ancora per una volta, Chuck stravolse l'intero mondo del metal. Stavolta il grande chitarrista era affiancato da Bobby Koelble (ora nei Junkie Rush) e dall'ex-Monstrosity Kelly Conlon (ha suonato in "Millennium").
Sinceramente, ci fosse stato Steve DiGiorgio al basso sarebbe stato qualcosa più che un capolavoro. Non ho mai capito il perchè della scelta caduta su Bobby, forse per far conoscere le sue capacità a tutti, dato che faceva parte ancora dell'underground. Alla batteria, lui, Gene Hoglan, una bestia, sempre più tecnico, preciso e veloce. Il giro di chitarra della title-track, così come le parole, hanno fatto la storia. Stavolta il simbolismo (appunto!) viene espasperato fino all'inverosimile, incastrato sapientemente nelle musiche aperte mai quanto ora alla melodia più fresca.
"...Rivivo il dono di preziosi ricordi, nel bisogno di un dilemma chiamato innocenza..." è una frase che fa pensare non poco. Forse è un concetto che si getta interamente nel passato di Chuck (la morte del fratello?) o forse ancora, vuole far rivivere semplicemente i suoi ricordi. Fatto sta, che il disco è una continua rappresentazione simbolica, e tante volte, questi simboli sparsi nell'album non riescono ad essere interpretati pienamente.
Nella religione di oggi, secondo Schuldiner non c'è tolleranza. Nella prima parte della seconda traccia, queste parole lo sottolineano molto bene:
"...Facendo cattivo uso di una porzione di luce,
Mentre altri stanno dormendo e alcuni stanno fuggendo
Un serpente vomita un'immaginazione:
Blasfemia ingiustificata..."
Strofe molto pesanti, che mettono in LUCE, le radici molto spesso discutibili del mondo religioso.
"...Ci sarà tolleranza zero per il creatore di beate intenzioni
Ci sarà tolleranza zero: il destino è il tuo Dio che decide
Il Karma decade...".
La batteria di Hoglan sembra pestare proprio su queste persone con poca dignità, ed accompagna con sapiente forza, il cantato di Chuck: è un ritmo insolito. Sempre molto "pacato", ragionato, quadrato: "Individual Thought Patterns" era infuocato nel suo incedere, così come i precedenti dischi (soprattutto "Human") ma questo "Symbolic", è a metà strada tra l'eterea melodia, la tecnica sopraffina, e la brutalità tinta di bianco. Il secondo solo è ad opera di Koelble: diamine che lavoraccio! Chuck ci mette il suo, come sempre, ma Bobby entra nella trama intricatissima con un assolo più catchy.
E po il finale indimenticabile "Questo non è un gioco da perdere o vincere: lascia che giustizia sia fatta". Gli arpeggi sono fantastici, sembrano rappresentare la parte più malinconica del nostro chitarrista, mentre i riff più heavy, l'ego nascosto, quello che, come in ogni lavoro dei Death, si cala nelle vesti di un personaggio per raccontare una realtà non sempre manifestata totalmente.
Le promesse vuote sono quelle non mantenute, quelle che la gente getta nelle braccia del vento, per essere dimenticate in poco tempo:
Lacerando lo spirito: le promesse sono un potenziale da danneggiare
"...Qualcosa è reale? Quando per sempre deve essere fin nel profondo, nel mondo di parole vuote...
Nessuna fuga da quelle ossessionanti parole vuote...lo senti mai?
Un desiderio che è così forte da essere ritrovato attraverso i pensieri
Speranze che brillavano attraverso il dubbio che presto avrebbe voluto cambiare nel prezzo..."
Un arpeggio languido, oscuro, premonitore. Lontane percussioni che si dileguano nello spazio, e la cascata di riff che ti cadono come schiaffi che impartiscono severe lezioni senza tempo. Belli gli assoli, si intrecciano disegnando lo stesso percorso che sembra guidare i due protagonisti della cover del disco. I titoli affondano il proprio significato nell'artwork, dove possiamo notare la presenza della montagna di cristallo, così come dell'occhio (la quinta canzone) o della -possibile- sacra serenità che permea nel luogo.
Già, la serenità:
"...La serenità sa che è salva dalla distruzione del tempo
Forse possiamo fare un passo indietro e scoprire cosa ci conduce ad attaccare..."
Un'entità che non sparirà mai, un'entità forse nascosta in un posto lontano dal mondo, diverso da questi chilometri e chilometri unti soltanto di corruzione. Un possente lavoro alla batteria costituisce i primi secondi della canzone: introdotta una parte solista niente male, molto classica. Il pezzo lascia senza fiato nel finale, e lascia spazio alla bellissima "1000 Eyes". Un tiro thrash personalizzato a dovere dal ritornello, impossibile da non ricordare.
"...Privacy ed intimità come la conosciamo noi saranno solo un ricordo
Tra i molti da dimenticare per quelli che non hanno mai saputo
Vivere nella pupilla di 1000 occhi: ora veniamo schiavizzati..."
Sembra (a mio avviso) un dipinto dell'era moderna, quasi a voler ricalcare ciò che già Orwell aveva detto. Avvelenati come non mai i secondi da solista, che gettano di nuovo senza pietà, i ritmi veloci e thrasheggianti delle ritmiche della coppia Conlon/Schuldiner. "Symbolic" prosegue così, tra composizioni infiammate come "Misanthrope". Chuck in un'intervista affermò che il pezzo parlava della possibilità della specie umana di poter vivere fuori dalla Terra. Una natura misantropica che ben si esprime in queste righe:
"...Dall'alto e intorno, si collezionano osservazioni
Si acquista conoscenza da curiose forme di vita
Che possono portare speranza dall'aldilà..."
Veniamo al fiore all'occhiello. Emozioni allo stato pure in "Crystal Mountain", la metafora contro la religione, la montagna costruita su bugie ed inganni (lo dice anche nel LIVE IN L.A.)
"...Intrecciando i tuoi occhi per percepire tutto ciò che vuoi
Per imparare dall'ignoranza, infliggendo ferite con il tuo coltello rivoltato..."
Il viaggio finisce con la ricerca del significato della PROPRIO, vita. Attraverso un viaggio infinito, fatto di pericoli e di mistero.
Il pezzo è sicuramente uno dei più variegati dell'intero disco, così come è uno dei più lunghi (ben otto minuti). Un inizio monolitico, tempi emozionanti che si bruciano nell'aria, echi strazianti, ed un cambio di tempo tutto in quinta, arricchito dallo screaming "A hunger that will not go away!!!!!!!!!!". Finale acustico da brividi, e le sue parole che ancora ci pesano, ma ci fanno compagnia:
"...Il viaggio inizia con curiosità ed evolve in sentite domande sulle pietre su cui noi camminiamo
E scegliamo di fare il nostro percorso a volte senza mai sapere, altre volte sapendo troppo
Evitando il male che ci trattiene..."
C'è chi lo critica e chi lo rinnega, c'è chi lo adora e lo canta e suona a memoria: un disco che divide generazioni, ma è inevitabile: è il capolavoro degli anni '90. Un'altro dei tanti.
Grazie Chuck...

Davide Montoro

venerdì 12 dicembre 2008

Death - Individual Thought Patterns (1993)


Etichetta: Roadrunner
Anno: 1993

Line-up:
Chuck Schuldiner - vocals, guitars
Steve DiGiorgio - bass
Andy LaRocque - guitars
Gene Hoglan - drums

Tracklist:
01.Overactive Imagination
02.In Human Form
03.Jealousy
04.Trapped In A Corner
05.Nothing Is Everything
06.Mentally Blind
07.Individual Thought Patterns
08.Destiny
09.Out Of Touch
10.The Philosopher

Due anni dopo, rinnovata nuovamente la line-up, esce ITP. E' un altro capolavoro, che vede alla batteria Gene Hoglan (uno dei miei preferiti), Andy LaRoque preso in prestito da King Diamond (infatti le parti di chitarra verranno suonate in sede live da Craig Locicero dei Forbidden), e la conferma Steve DiGiorgio al basso. Le premesse sono ottime, le dieci canzoni anche, se si pensa che non c'è né un calo di tensione (e mai ce ne saranno!) nè un passaggio-filler (riempitivo, per i pochi). Chuck ci spiega i suoi schemi di pensiero...ma...cosa saranno poi questi schemi di cui parla nell'album? Nella title-track, sembra quasi volerci parlare di tutte quelle persone che si comportano da parassiti, verso i modi di pensare (appunto, gli schemi) altrui.
E quella copertina così misteriosa cosa vorrà significare? Fino a "Human" gli artworks erano stati sempre fin troppo chiari (perché, volete dire di no?lascia così tanto spazio all'immaginazione!), ma in ITP ci sono troppe incognite da ... risolvere. Questo lavoro eredita dal precedente, una cosa importante, e cioè le sonorità compresse e tirate. Certamente non come in "Human", bensì con un tiro più calibrato, ancor più tecnico (!!!) ed innovativo. Si, avete letto bene, innovativo. Parafrasando un noto disco, affermo spesso che Chuck rappresenta "A Saurceful Of Secrets": non finiamo mai di imparare dai suoi testi, scopriamo piccole cose che ci sfuggono, così come quando ascoltiamo la sua musica.
"Individual Thought Patterns" vanta un attacco al fulmicotone con la canzone "Overactive Imagination", una totale presa di posizione contro una cosa che il singer definiva una piaga, ovvero l'inganno.
"...Le tue bugie si diffondono da una parte all'altra del mondo come una piaga. Approfondendo l'arte dell'inganno..."
"Il tuo manoscritto sarà a corto di idee. La storia presto finirà.
Le persone in cui avere fiducia diminuiscono...".
Come sempre, egli non risparmia nessuno, non con chissà quale cattiveria di fondo. Lui diceva la verità, semplicemente. Il suo punto di vista. Leggere però questi testi fa capire che non sono semplici punti di vista. Quando mi capita di rileggerli mi distacco sempre da ciò che mi circonda, penso sempre che, è si il suo modo di pensare, ma diventa anche il mio, perchè sono affermazioni definite in un modo così semplice e speciale, che ti entrano subito nella mente. Inevitabilmente, il passo successivo è la passione verso questa band.
Un tocco epico, costituisce la seguente "In Human Form", dove le chitarre hanno un particolare suono, dal particolare gusto retrò (una cosa questa, che riscontro nel disco intero). Indispensabile a sorreggere "Jealousy" troviamo un testo tanto semplice (!) quanto efficace:
"...Lo stare dietro gli occhi è un luogo che nessuno riuscirà a toccare.
Contenendo pensieri che non possono essere portati via o rimpiazzati.
Tu vuoi ciò che non è tuo, Gelosia.
Tu vuoi ciò che non puoi avere, Gelosia..."
Molto complessa fin dall'inizio, un pezzo dove Hoglan e DiGiorgio si divertono a sfidarsi. Il primo a pestare violentemente e precisamente tra crash e grancassa, l'altro a disegnare linee di basso morbide e fluenti. LaRocque si sente eccome, il suo stile dimenticatelo sin dalla prima nota, perchè in questo ITP spara i suoi solos in modo ancora più allucinante, travestiti di una natura alquanto eterea.
Segue "Trapped In A Corner", che insieme a "Out Of Touch" costituisce a mio avviso il punto alto del capo-lavoro.
"...Voglio vederti annegare nelle tue bugie,
la fine della tua finzione, una questione di tempo,
bugie che interagiscono, dominio, controllo,
nutrire la sua natura contorta:
è rivoltante vedere i sogni morire..."
In queste parole, Chuck vi impasta continui cambi di tempo, uno dopo l'altro. Si inizia a testa alta, con un'epicità assurda, poi le chitarre sfociano in un territorio più brutale, che infatti, accompagneranno le parole di cui sopra. Prima Hoglan e poi Steve, scandiscono il momento di cambiare tempo: la musica si fa ancora più maledetta:
"...Un consiglio: la pazienza del destino si sta accorciando.
Fingere nei confronti della mente e dell'apparenza:
cadrai a corto di sogni da distruggere...".
Più si va avanti e più il singer tocca punte inarrivabili: dalle scale ipnotiche di "Nothing Is Everything" ed i suoi grandi giri di basso (ascoltateli attentamente, son davvero unici). Da qui in poi non si respirerà più: "Mentally Blind" è impeccabile, subisce un cambiamento verso la metà, quando le chitarre e la batteria corrono veloci in un incedere quasi marziale. E se la titletrack invece colpisce per la sua radice fusion (beh, si...qui i Death strappano radici sia dal thrash, destrutturandolo a dovere, sia dal death), "Destiny" è assolutamente il manifesto di questo cd.
"...ll tempo è una cosa che dobbiamo accettare. A volte dell'inaspettato ho paura.
Quando appena sento che non c'è scusa per ciò che accade,le cose cadono in un luogo.
Io so che non c'è modo per evitare la sofferenza che dobbiamo
attraversare, per trovare l'altra metà che è fedele.
Il destino è ciò che noi tutti cerchiamo. Il destino stava aspettando te e me..."
Se lo leggiamo a distanza della morte di Chuck, vengono i brividi.
Premonitore, direi.
ITP si chiude nel migliore dei modi: "Out Of Touch" è la mia preferita. L'intro è stata utilizzata per aprire "Living Monstrosity" al concerto di Firenze del 1993, per la data di supporto a questo periodo della band. Viaggia una meraviglia, velocissima, concedendosi momenti di genio in ogni "dove" e "come", ascoltate ad esempio il minuto 2:49 per capirmi...
"The Philosopher" invece, altro highlight della band, sembra quasi un tributo alla filosofia, appunto...Il suo testo sembra trarre spunto dai pensieri di Socrate e Freud in modo così geniale che nessuno mai aveva osato.
Più specificatamente, il pezzo entra nelle menti guidate dai mass-media e da chi è così arrogante da credere di essere onnisciente.
Un disco oscuro, difficile, ma che saprà dissetarvi a dovere.

Davide Montoro