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domenica 12 ottobre 2008

Dead Meadow - Feathers (2005)




Anno: 2005


Etichetta: Matador


Tracklist:
Let's jump in
Such Hawks Such Hounds
Get up on down
Heaven
At her open door
Eyeless gaze all eye/Don't tell the riverman
Stacy's song
Let it all pass
Through the gates of the sleepy silver door

Il viaggio era iniziato così, con un pesantissimo album eponimo e tanta voglia di fare una sequela tra il meglio della psichedelia, dai Grateful Dead, agli Spaceman3 ai 13Th Floors Elevetor, magari alle origini tutto condito da una maggior vena heavy, talvolta a la Black Sabbath / Blue Öyster Cult , talvolta Pink Floydiana / Hawkwindiana, poi le cose si miscelarono e maturarono molto meglio in Howls From The Hills, per poi farsi più folk-darkeggianti e attuali in Shivering King And Others.Feathers alla sua uscita sembrò dare un taglio netto nella carriera dei Dead Meadow, qualcuno ci vide l'album della maturità, tutti gli altri, semplicemente il loro album più degno di nota. L'entusiasmo è in parte giustificato dal fatto che in due anni, forse qualcuno aveva dimenticato il capolavoro Shivering king and others, o forse dall'entrata di Cory Shane alla seconda chitarra, e alla vistosa maturazione di tutti i componenti della band, non più una carovana trascinata dal cantante-chitarrista Jason Simon, ma un quartetto di musicisti professionisti, forse anche troppo ormai.La coincisione e la professionalità del sound fa si che l'album Feathers non sia altro che uno strenuo tentativo di trasformare una band nata per le jam in un gruppo che scrive e suona canzoni, il che è già una forzatura, almeno se si oltrepassa il punto di non ritorno di Shivering king and others, che rappresenta tutt'ora il loro equilibrio perfetto tra improvvisazione e lucida composizione. La maggior parte dei brani è tra i quattro e i cinque minuti e fa un'opera di coazione psicologica verso l'ascoltatore, praticamente forzato alla paranoia e a sprofondare nella depressione sotto coltri di chitarre acide, ma non così varie ne suggestive come in passato, però forse più claustrofobiche possibile. Ma se qualcuno ci ha visto il capolavoro,il motivo ci sarà. I pezzi sono tutti criptici, misteriosi, non desertici, semplicemente ossessivi, e ogni tanto hanno quell'alone metafisico che è capace di stregare come la breve Such Hawks Such Hounds, che si avvicina alla tradizione americana (passando per i Doors) molto più che in passato. Magari qualcuno ci ha trovato giustamente una maggiore vena melodica, come nel pop psichedelico di Stacy's Song, una chicca delicata in un mare di pesantezza. Il blues cadenzato fino a stonarsi di Get Up On Down riesce bene nel suo intento solo grazie a delle chitarre molto affilate, che si sanno mantenere sveglie nonostante la ripetitività e sono capaci di provocare dolori nel finale. Languido Jason in At Her Open Door, fa i conti con una composizione orecchiabile e se non altro allenta la presa con qualce concessione alla melodia e all'ascolto, salvo l'inevitabile piccola jam nel finale, stessa tecnica adottata in Eyeless Gaze All Eyes/Don't Tell The Riverman, che spinge anche olte, partendo da una canzone acid blues ancora più lenta e misurata, e sfociando su un esito ancora più rarefatto e dilatato-rallentato al limite dell'inascoltabile, anzicchè roboante come in passato. Fin qua sembra una soffice e delicata mazzata capace di sconvolgere e sedurre, anche se non di certo superiore alle jams galattiche degli album precedenti.

L'immedesimazione totale musicista-musica che è tipica della storia della psichedelia qua avviene in una mimesi con gli elementi della natura, che sembrano rivivere e traspirare tra i solchi del disco, tra canzoni che sembrano legnose, altre che sembrano intagliate nelle nuvole, altre che sembrano suonate sott'acqua, tra bolle d'aria, altre vibranti sin dal centro della terra, e sussultano soffocate e sorde sotto i piedi, ma pur sempre percepibili coi sensi, ora solo con flebili vibrazioni, ora solo con il tatto, ora solo con l'immaginazione. e la composizione striminzita non è altro che un modo per dare solo un principio di canzone, e lasciare che sia l'ascoltatore e la sua mente a fare il resto del viaggio. Metodo induttivo e naturalismo: questo è il punto focale della scienza dei Dead Meadow.

Superlativo invece il finale, un breve ritorno al passato, con Let It All Pass, tutt'altro che implicita, ma ampiamente sviluppata in tutte le sue multiformi e vulcaniche divagazioni addirittura a metà tra acid blues estremo a la Blue Cheer, però rallentato fino alla nausea, trovate tecniche a la Cream, dilatazioni lisergiche e sfumature Barrettiane. In conclusione poi, una canzone senza titolo, che inizia dopo due minuti di sfuriata percussionistica intitolata Through The Gates Of The Sleepy Silver Door, che fa da intro a una suite innominata lunga quattordici minuti, che è di gran lunga il pezzo più efficace della carriera della band inglese (nonchè continuazione ideale del primo pezzo del loro primo album), dirompente, incisiva, assolutamente variegata, fatta di momenti "estremi" e punte di melodia, attimi di sconvolgimento lisergico, o tendenze quasi kraut rock e riprese del discorso seppur brevi ma capaci di tenere in piedi un minimo di coesione. In totale controtendenza con il resto dl disco, un punto di tale intensità e densità che, come un buco nero, risucchia tutti i corpi circostanti, deforma lo spazio e come si suol dire, chi si è visto si è visto, questi sono i Dead Meadow e sono fatti così, quando meno te l'aspetti, in conclusione all'album, con un colpo di coda cambiano tutte le carte in tavola, e ti fregano pure questa volta.
John

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