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domenica 11 gennaio 2009

Green Carnation - Light Of Day, Day Of Darkness (2001)


Anno: 2001

Etichetta: The End

Journey To The End Of The Night aveva segnato il ritorno di Tchort, unto dal siero della vita eterna per il suo trascorso negli Emperor e ormai acclamato nell'olimpo del metal; questo Light of Day, Day of Darkness invece rappresenta il seguito del progetto più "sperimentale" della carriera del compositore norvegese ("sperimentale" se non altro perchè gli ha permesso di provare stili molto diversi e lontani dai suoi canoni e dal suo background) e sicuramente la sua incarnazione più ambiziosa: Tchort, avendo provato il disco doom gelido da 5 brani, vuole sperimentare l'album monotraccia, e così forgia un'ora spaccata di musica, un'ora in cui raccimola tutti i suoi capricci musicali e li fonde, li incastra, li intreccia abilmente e in modo molto raffinato (cosa molto rara per i compositori in delirio di onnipotenza come lui). Le coordinate stilistiche del disco sono lontane dagli esordi black del progetto e dal doom affascinante e complesso del come back del 1999, Tchort licenzia la vecchia formazione e al posto della girandola di vocalist presenti nel disco precedente inserisce un Kjetil Nordhus piuttosto in forma, coadiuvato nei rarissimi scream da Roger Rasmussen e nelle parti operistiche da Synne Soprana(dolce ricordo di "Journey To The End Of The Night"); alla chitarra e al basso al posto dei fratelli Botteri degli In The Woods ci sono Bjørn Harstad e Stein Roger Sordal; e un ottimo Anders Kobro alla batteria.Dopo aver vagato nell'oscurità, Tchort trova la sua via d'uscita dall'incubo, è la fine della lunga notte, la nascita di un figlio; un certo senso di "illuminazione" pervade tutto l'album, ancora incentrato sul tema del sogno, dell'illusione e della fuga, ancora troppo descrittivo; la voce di un bambino apre e chiude l'album. L'impressione che si ha è che l'autore abbia voluto esagerare, fare le cose veramente in grande, e metterci il più possibile del suo; il risultato è maestoso, ma non c'è un solo riff, non c'è un solo assolo o un solo passaggio che mi sembra memorabile di per se (l'unico assolo di chitarra degno di nota va dal minuto 41 al minuto 44, che cerca di essere maestoso a tutti i costi, ma è incisivo come acqua tiepida), piuttosto è da ricordare l'abilità nel creare dei grandi intrecci, tutti molto intelligenti, frutto di una vena compositiva matura e fantasiosa anche se secondo me non ancora focalizzata.L'ascolto non è di certo cosa facile, e non si presta ad una maturazione progressiva, l'album è grande e memorabile solo in proporzione a quanto esso riesce a stupire per la proposta mastodontica, ma lascia dietro di se solo un cumulo di atmosfere e suoni che sono tutto il contrario di tutto. Inutile e sterile sarebbe ora fare una descrizione minuto per minuto, ma è bene fare qualche appunto tanto per rendere l'idea del contenuto del disco: l'inizio è tutto un crescendo di atmosfere sempre più dure e spesse, fino al consolidamento heavy che si alterna a momenti di calma, tra ventate gelide che mostrano reminiscenze black, e duetti violino/batteria (minuto 10-13) poi di rito strofa-solo-ritornello, cambio di ritmo vertiginoso, poi apertura atmosferica (ancora violini e chitarra acustica). Nel continuo costruire e smontare melodie e orchestrazioni raffinate (anche troppo), ci scappano anche alcuni momenti di epico heavy-prog con tanto di doppia grancassa (verso il sedicesimo minuto) per poi scivolare nel melodramma (verso il diciottesimo minuto) prima della routine solistica e violinistica (non c'è un solo passaggio di violino che non mi risulti forzato, quasi fastidioso). Un altro momento intenso (o che almeno ci prova) è il passaggio heavy-thrash verso il trentesimo minuto, con contorni sinfonici. Tutto si incastra alla meraviglia, tutto concorre in un quadro complessivo molto solido e freddo, nel quale in fin dei conti c'è ben poco da interiorizzare, c'è più che altro da contemplare, e al massimo isolare qualche momento che sembra più interessante degli altri, come all'inizio della seconda metà del brano, quando si incrociano gorgheggi di Synne e il sassofono di Arvid Thorsen.Se la traccia si fermasse a 10 minuti dalla fine potremmo anche pensare che si tratta di un monumento al tradizionalismo musicale (alla faccia dei Green Carnation come progetto "sperimentale" di Tchort!) progressive-metallaro oscuro-decadente falso-spiritualista, ma proprio al quarantanovesimo minuto inizia un cameo un po triste di effetti futuristici e ventate di musica persiana (Endre Kirkesola al sitar) che conducono all'ultimo assolo e al gran (?) finale assolutamente inodore incolore e insapore.Detto questo, si tratta solo della mia opinione, la stragrande maggioranza dell'altra gente reputa questo polpettone il capolavoro dei Green Carnation. A voi non resta altro che ascoltarlo o riascoltarlo, per rileggere criticamente quello che ho scritto e, magari, farmi notare dei particolari che non ho colto o altre possibili chiavi di lettura. In ogni caso, si tratta di un album da ascoltare.

JOHN

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