Creative Commons License
Rock e Dintorni by Rock e Dintorni is licensed under a Creative Commons Attribuzione-Non opere derivate 2.5 Italia License.
Based on a work at rockedintorni.blogspot.com. .: Korn - Korn (1994)

mercoledì 3 dicembre 2008

Korn - Korn (1994)

Anno: 1994

Etichetta: Epic Records

Tracklist:
1. Blind
2. Ball Tongue
3. Need To
4. Clown
5. Divine
6. Faget
7. Shoots and Ladders
8. Predictable
9. Fake
10. Lies
11. Helmet In The Bush
12. Daddy

Line-up:
Jonathan Davis - voce

James "Munky" Shaffer
- chitarra

Brian "Head" Welch
- chitarra
Reginald "Fieldy" Aevizu - basso

David Silveira - batteria

Esistono dischi belli e dischi brutti. Esistono dischi emozionanti, dischi freddi, dischi piatti. Esistono dischi che superano tutto questo, che non possono essere descritti con un semplice aggettivo. Dischi la cui profondità va oltre la percezione dell'ascoltatore. Dischi che rappresentano un'epoca, che hanno segnato e cresciuto un'intera generazione, che ne hanno influenzato il modo di agire e di pensare, che hanno rivoluzionato la musica e hanno fatto impazzire la critica. Korn è uno di questi.
E' la solita storia americana. Un ragazzino sfigato, odiato e preso in giro dai compagni, con un'infanzia infelice che include la separazione dei genitori. Ovviamente il tutto è condito da una buona dose di pulp e morbosità: il vicino pedofilo, la violenza sessuale subita in giovanissima età, i genitori che fingono di non sentire. Il ragazzino viene costantemente umiliato, perchè è effemminato e fuori moda; cresce con in copro una dose incredibile di rabbia repressa. Sta male, malissimo. E' depresso. Trova una parziale valvola di sfogo nella musica: ha una voce notevole, e si diletta sin da quando è bambino a suonare la cornamusa. Così inizia a provare con alcuni gruppi alternativi della sua città. Durante uno degli show con la sua band, come accade in ogni storia che si rispetti, viene notato da alcuni ragazzi che suonano in un gruppo Metal, che di li a poco prenderanno il nome di Korn. Viene contattato, e da un momento all'altro si ritrova catapultato in un nuovo mondo: Jonathan è stato nella sua adolescenza un fan della New-Wave, e ascolta i Duran Duran. Del Metal non ne ha mai neanche sentito parlare. Ora, sentito come canta nei Korn. Provate a sfuggire ai suoi tentacoli. Alla sua voce straziante, ai suoi sussurri. Alle sue grida. A quel modo tutto suo di interpretare i pezzi, caustico ma allo stesso tempo rassegnato.
Il primo disco dei Korn è una storia. Una storia americana. Di quelle piene di soprusi e violenza. Proprio come quella di Jonathan. I testi autobiografici parlano di bullismo, di pedofilia, di temi forti. Denunciano la società non tanto dal punto di vista politico, no: quello lo lasciano ad altre band. Sono un semplice sfogo. “Siamo stufi”, sembrano dire. Stufi di una società conformista, che divora la personalità e gli ideali dei ragazzini. E non è un messaggio da sottovalutare: oggi va di moda essere contro le regole, contro la società. Negli anni '90 non era così scontato. Davis si dispera, si arrabbia, distrugge il concetto di cantante Rock, lo rielabora. Lui non è un divo, è un ragazzo come tanti, con problemi di droga e di depressione. Racconta storie che tutti conoscono, ma fingono di non aver mai sentito. Abbatte le barriere imposte dal perbenismo americano.
E' un disco difficile da descrivere, andrebbe semplicemente ascoltato. Sviscerato. La musica, il loro Funk-Metal così crudo e violento, non è altro che la cornice, l'accompagnamento della narrazione. Il cantato psicotico di Davis, che ruggisce e miagola, distrugge e si abbandona al pianto, ci guida attraverso un viaggio lungo, fatto di sofferenze atroci e di verità inquietanti. La prima di queste verità, è che stiamo diventando tutti ciechi.

Deeper, deeper, deeper inside me
I live a life that seems to be a lost reality
That I can never find a way to reach my inner self.
I stay alone.

Blind è il pezzo con cui si apre il disco, nonché ancora la canzone più rappresentativa dei nostri. E' un pugno nello stomaco. “Are you ready?”, ci sputa in faccia Jonathan. Siete pronti? Siete pronti ad addentrarvi nel profondo della mente umana, a prendere parte agli oscuri psicodrammi inscenati dai cinque americani? Ormai è troppo tardi per abbandonare. I riffs ruvidi e massicci, il basso pulsante di Fieldy, la voce teatrale e sofferente. C'è tutto quello che rappresenta il sound dei Korn del primo disco. E allora abbandoniamoci tra le braccia dell'oscurità, e proseguiamo il nostro viaggio. Se Blind era relativamente pacata, ci pensa Ball Tongue a distruggere le poche certezze che ci rimanevano. Il muro sonoro è semplicemente sconvolgente. Quel giro di basso entrerà nella storia, quella sezione ritmica potente e dal tocco vagamente (ma anche di più) Funky, le grida e i rantoli di Jonathan, le chitarre che dipingono riffs tipicamente Metal, ma dal gusto Rock e dall'impatto devastante. “No hope”, dice a un certo punto il testo. Questo è il pensiero di chi ascolta Ball Tongue. Un condensato di rabbia che si spegne in grida di dolore. Un dolore allucinante, che non ci colpisce fisicamente, ma ci distrugge psicologicamente. E poi arriva Need To. Il ritmo sincopato, i rocciosi riffs questa volta molto più Rock, non sono altro che la tela su cui Jonathan tesse il suo dramma: è la storia di una persona alla ricerca dell'affetto che non è mai riuscito ad ottenere, che gli è sempre stato negato. E soffre, soffre come un cane. Il dolore è allucinante ma non può morire, non deve, deve continuare a soffrire. E la rabbia sale. Rabbia che si concretizza in un pezzo, in una canzone straordinaria: Clown. E' una dichiarazione di odio verso i bulli, verso coloro che si credono migliori. Ma non fermiamoci a questa semplice storiella: in realtà è una critica ben più profonda, rivolta al sistema e alla cultura americana (che poi dilagherà in tutto il mondo), quella del conformismo.

Scream at me again, if you like
Throw your hate at me, with all your might
Hit me 'cause I'm strange, hit me
Tell me I'm a pussy and you're harder than me
What's with you boy? Think hard
A tattooed body to, hide who you are
Scared to be honest, be yourself
A cowardly man

Il ritmo psicotico della canzone è una tortura per il nostro cervello, che riceve il colpo finale dal cantante nervoso di Davis. I suoi sussurri crescono. La lenta cantilena del ritornello diventa presto un cumulo di grida violentissime. E' uno sfogo, uno sfogo con le lacrime agli occhi.
L'intensità di questo pezzo non ha ancora fatto in tempo a spegnersi, quando attaccano Divine e, senza lasciarci un attimo per riprenderci, Faget. Il discorso è più o meno sempre lo stesso: si parla del Jonathan sfigato, del Jonathan effemminato, del Jonathan drogato. Di Jonathan come di molti altri. Un'intera generazione si riconosce in questo testo, e grida contro il muro della propria camera tutto l'odio che ha in corpo verso una società che non accetta la diversità. I riffs quasi Thrash Metal, che ricordano tanto i Sepultura quanto i Pantera, la sezione ritmica a dir poco eccezionale, con David Silveyra sugli scudi, capace di passare dal Funky al Metal, passando per il Rock pesante, e Fieldy semplicemente sensazionale, con quei suoi giri di basso che entrano direttamente nella storia. E su tutti Jonathan Davis, che graffia con quella voce così teatrale, così perfettamente calata nella parte. Così dura, ruvida, straziante.
Il terrore ci pervade con Shoots and Ladders, un'oscura litania che si apre con un'intro di cornamusa, strumento suonato sin dall'infanzia da Jonathan, che intona successivamente una filastrocca tanto infantile quando incredibilmente inquietante. Uno dei punti più alti dell'intero disco, nonché uno degli spunti più geniali di tutto il Rock degli anni '90. E alla paura si sostituisce di nuovo il dolore, con le successive Predictable e Fake. Sconvolgenti. Le sonorità quasi noise della seconda sono lo sfondo di un massacro verbale messo in atto da Davis, un attacco rivolto a tutto e a a tutti. E se Lies continua su questa falsa riga, con Head alle backing-vocals che si esibisce in un growl a dir poco devastante (è questo, probabilmente, il pezzo più violento dell'intero album), Helmet In The Bush gode di influenze Industrial.
Siamo giunti quasi alla fine. Il dolore ci pervade e ci stritola le budella, ci spinge contro il muro con un coltello puntato alla gola. Il cantato tenebroso di Jonathan Davis è ancestrale, ci riporta ad un passato scuro. Salvo poi sbatterci di nuovo nel presente, e narrarci una storia a dir poco sconvolgente. La storia dello stupro subito dal frontman. Entrare nell'intimità del cantante, che cerca di spiegare ai suoi genitori cosa è successo, è addirittura imbarazzante. E ci fa male. Soffriamo per noi, per lui, per un mondo che sta scomparendo. Gli ultimi sussurri, gli ultimi gemiti si fanno strada. Le nostre orecchie piano piano si liberano da questi suoni così oscuri, così bassi. Così dannatamente reali. Stiamo lentamente uscendo da questo psicodramma. Ma come accade per un libro di Kafka, l'esserci liberati da un tale peso non equivale al sollievo. Che sia il caso di ricominciare il viaggio?

Alphadj

Nessun commento: