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mercoledì 12 novembre 2008

Neurosis - A Sun That Never Sets



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Anno: 2001 Label: Neurot Recordings

Tracklist :
1. "Erode" – 1:49
2. "The Tide" – 8:49
3. "From The Hill" – 9:26
4. "A Sun That Never Sets" – 4:59
5. "Falling Unknown" – 13:11
6. "From Where Its Roots Run" – 3:42
7. "Crawl Back In" – 6:50
8. "Watchfire" – 8:27
9. "Resound" – 1:26
10. "Stones From The Sky" – 9:46

Line-Up :
Scott Kelly - guitars, vocals, percussions
Steve Von Till - guitars, vocals, percussions
Dave Edwardson - bass guitar, synthesizer, vocals
Noah Landis - organ, piano, samplers
Jason Roeder - drums
Josh Graham - visuals

Un sole che non sorge mai.
La speranza resa vana dalle aspettative future rivelatesi fallimentari.
E non possiamo far altro che perderci nella luce crepuscolare che esso emana.
Consci che nessun raggio bagnerà più i nostri giorni che inesorabili scivolano via, lontani.
Il cammino inesorabile della vita che ci vede allo stesso momento registi e spettatori non paganti.
Tutto questo è A Sun That Never Sets, il settimo album in studio di quella entità musicale capace di trascendere tempo e spazio, che prende il nome di Neurosis. Dopo l’oscurità pregna di impotenza e catartica osservazione del nostro animo, posta in musica dalla Triade, un’elevazione spirituale che ci riporta dopo tanto salire a una infernale discesa, riportandoci alla terra che aveva accolto la nostra nascita con il monolitico Times Of Grace. Ed è questa la via che la band decide di intraprendere con questa ennesima realease. Scegliere una nuova visuale, una visuale terrena comprensibile per l’uomo, scrutare dal basso l’enormità della volta celeste che si erge al di sopra delle nostre teste, che assiste alle nostre azioni, e non giudica, mai.
La collaborazione con il guru Steve Albini prosegue inesorabile, connubio perfetto voluto da entrambe le parti, capace di dare vita a mausolei sonori di rara bellezza, dinanzi ai quali ci si può solo prostrare, in ginocchio, chinare il capo e stringerlo tra le mani, in segno di resa e disperazione.
Il sound è legittimo figlio dell’evoluzione cominciata con Times Of Grace, ma riprende quel carattere buio che fece grande un capolavoro come Through Silver In Blood. Si parte quindi da una alleggerimento della struttura delle song, ma questa volta l’operazione risluta meno evidente e maggiormente omogenea, visto l’arricchimento della sezione orchestrale, magistralmente portata avanti da un Noah Landis che diventa davvero colonna portante della band, tassello essenziale nel mosaico Neurosis, che ora da sestetto si muove, grazie al contributo visivo di Josh Graham, che fondamentale per donare fisicità alle song in sede live e su video, grazie alle sue immagini forti e ipnotiche, segno che la creatura neurosisiana, oramai trascende qualsiasi schema conosciuto.
Si parte con Erode. Come avvenuto su Times Of Grace, ci viene presentata una strumentale che è di straniante bellezza. Ambient minimale che si muove come una serpe su ritmi cadenzati di percussioni e batteria, mentre Landis da libero sfogo ai demoni che risiedono nella sua mente, attraverso passaggi disturbanti e cesellati, piccole schegge che penetrano nella pelle per non uscire piu. Ed è in questo modo che si apre l’angosciante The Tide. Un crescendo acustico processato dalla voce di Steve Von Till che riesce a pizzicare le corde nascoste che risiedono all’interno del nostro animo, smuovendoci dentro, liberandoci dal rumore che alberga all’interno di noi, liberandoci dal rimbombante silenzio del cosmo. Violini soffici come piume al vento ci fanno strada all’interno della song, mentre flanger spaziali di sottofondo disegnano scenari di bellezza impercettibile, sussurrata all’inizio, ma che lentamente alza la voce e si alza, come la marea nelle notti di plenilunio quando regna la quiete e il cielo ci sorride beffardo. Le orchestrazioni di Noaha camminano mano nella mano alle chitarre di Scott e Steve, mentre entrambi si dannano alla disperata ricerca della voce del mare, che continua a sollevarsi, fino a sommergere ogni cosa.
Tutto mentre rintocchi di campana paiono segnare una lenta marcia versi gli abissi dell’oblio.
Una risultante di forze differenti e contrastanti, ben espresse nella monumentale From The Hill.
Da una parte la dannazione perenne inscenata dalla straziante preghiera di Scott, dall’altra parte, in un perfetto ossimoro sonoro, il vuoto totale della paste strumentale, poggiante su sfuggevoli distorsioni di chitarra e con soli di batteria e basso ad accompagnare questa marcia funebre che viene gelidamente accarezzata da cornamuse che scolpiscono nella mente nuovi paesaggi solitari e graffiata in maniera gelosa da chitarre che crescono con la massima imponenza e non curanza della pace circostante. Pace nuovamamente stuprata dal cucù iniziale della title track. Verrebbe da ridere se non si sapesse di avere a che fare con una band che non fa dell’allegria la sua arma principale, ed ecco a conformare le nostre certezze (come se ce ne fosse ancora bisogno) l’andamento decadente della song si mostra in tutta la sua durezza, ma per la prima volta Scott e Steve adagiano le loro clean vocals sopra uno spesso tappeto di chiatarra e non sopra soavi arpeggi acustici : manna dal cielo. Una capacità emotiva inaspettata ma quasi desiderata, a voler mostrare che non le anime della band non sono scisse e inconciliabili, ma anzi, forti di un incastro che rasenta la perfezione.

“A sun that never sets burns on.
New light is this river's dawn.”


Ogni essenza che si unisce ad un’altra, costruendo una barriera sempre più difficile da infrangere. E non osiamo neanche, incantati dalla ninna nanna di Falling Unkown : 13 minuti di poesia pura.
Carezze chitarristiche minimaliste si alternano a riff meditati e introspettivi, non più atti a deflagrare per fare male, ma quasi con una funzione filosica, atti a far meditare, come se fosse Freud stesso a insinuarsi nelle acide note della song e condurci verso i meccanismi più reconditi della nostra mente, a risolvere l’opposizone tra il nostro Io e un Super-Io proveniente da più fronti, capace di schiacciarci dall’interno, cibandosi delle nostre paure, e dissanguandoci dall’esterno, fortificato dall’egoismo delle masse che come anime possedute danzano lentamente intorno a noi. Danzano guidate dal ritmo post-rock che torna in seno alla band dopo una breve apparizione sul precedente album, andamenti ipnotici e acustici che diverranno il marchio di fabbrica dei Red Sparowes e degli ultimi Isis, ma i maestri sono loro, e lasciamo che il loro concerto continui indisturbato, chiudendosi in una finale epico all’inverosimile.

“With the wind at your back and the light in your eyes,
the freeze of your blindness will show.
Under the cloud cover, the flares signal change.
Will you ever know?
The fields they are burning, the smoke chokes your breath.
Will you stand or run?
You dream of a mountain, the peaks rise to the sky.
Will you answer its call?
Is your heart still beating? Can you feel this at all?
This landslide will bury us all.
With the storm on your mind and the clouds in your eyes,
will you survive?
Lie in wait, I will lie awake.
Falling through a world unknown.”


Legarsi indissolubilmente alla terra, e quale titolo è migliore per sancire questo legame di From Where Its Roots Run? Nessuno, infatti. Un ritmo tribale che riporta ai tempi di Enemy Of The Sun, sopra il quale si staglia il sermone di Steve Von Till, e in secondo piano il ballo rituale di Scott.
Si rimane a bocca aperta dalla freschezza che trasuda una song come Crawl Back In, aperta da riff non cupi, ma aperti e pregni di una luce lontana, ma sempre di luce si tratta, e non si può contestarla. Il mood è di quelli che si inculcano nella mente per non lasciarla più. Una confessione di un cuore che vuole liberarsi di un peso insostenibile, che fa male e sanguina, in maniera composta e silenziosa, aprendosi al pianto solo nel finale, quando le chitarre di Scott e Steve creano il giusto momento per lo sfogo. Un finale ispido e severo, crudo e sui denti, che si contrappone all’assordante desolazione di Watchfire. Riemergono le influenze soliste dei due leader della band, capaci di disegnare fumose immagini di introspezione che poggiano su Nick Cave e Johhny Cash, su Michael Cashmore e sull’isteria di Thom Yorke, relegano l’eplosiva essenza Neurosis a mirati frangenti di cattiveria controllata, che si protraggono fino allo spoglio finale della song.
Campane e batteria, ci portano verso la piccola pausa di Resound che volenti o nolenti, fa il verso al sound di Blood Inside degli Ulver. Lenta e martellante, senza spendere una goccia di sudore, ci porta alla suite conclusiva che prende nome di Stones From The Sky.
A guidarci verso un altipiano brullo a mirare il cielo è Scott Kelly, che riporta nella song tutta la passione verso il folk apocalittico riversata nel lavoro solista Spirit Bound Flesh, una song tra le più belle mai scritte dal combo, che cresce inesorabile e porta alla contemplazione, sorretta da flauti che portano la mente alle notti dei beduini nel deserto, che scrutano il cielo in cerca di un segnale propizio per un futuro incerto. Quasi dieci minuti da respirare a pieni polmoni, e lasciarci inebriare dal profumo caldo che sprigiona la song, mentre il sole finalmente sorge, ma non dinanzi ai nostri occhi, bensì all’interno della nostra anima.

“Sun of my soul be revealed. Walking amongst the stones
from the sky, feeling their rhythm wash over me


E tutto si finisce nei disturbi della frequenza causati dalla tempesta circostante, ma noi siamo al sicuro, non si sa per quanto, nell’occhio del ciclone che severo ci avvolge.

Neuros

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