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Based on a work at rockedintorni.blogspot.com. .: Neurosis - Enemy of The Sun

lunedì 10 novembre 2008

Neurosis - Enemy of The Sun

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Anno: 1993 Etichetta: Alternative Tentacles Records


Line-Up:
Scott Kelly (guitar, vocals)
Steve Von Till (guitar, vocals)
Dave Edwardson (bass, vocals)
Simon McIlroy (keyboards, tapes, samples)
Jason Roeder (drums and percussions)
Pete Inc. (visual media)


Tracklist :
1. "Lost" - 9:41
2. "Raze the Stray" - 8:41
3. "Burning Flesh in Year of Pig" - 1:37
4. "Cold Ascending" - 4:35
5. "Lexicon" - 5:41
6. "Enemy of the Sun" - 7:33
7. "The Time of the Beasts" - 7:59
8. "Cleanse" - 26:34



Ormai non si può più tornare indietro, quel ponte instabile che aveva il nome di The Word As Law è definitivamente crollato, utile unicamente per una traversata, tornare indietro significherebbe cadere in un fiume d’oblio, senza dimenticare che dietro di noi sono anche già chiuse le porte interne dell’animo rappresentate dalla carezza disperata di Souls At Zero, la prova da superare, a fatica, tra sudore sangue e nero catrame.
Ormai la direzione è prefissata, bisogna andare avanti, ma la destinazione, quella no, quella è ignota. E allora si va, chiusi nell’abbraccio del proprio io, senza l’interferenza di niente e nessuno, guidati unicamente dal proprio deviato raziocinio.
Enemy Of The Sun vede la luce solamente un anno dopo Souls At Zero, e si porta ancora più avanti del predessore, spingendo la band in universo proprio che la vede come demiurgo. Prodotto da Billy Anderson agli Razor's edge studio di San Francisco, il full-length è un vero pugno nello stomaco. I suoni si dilatano ancora e subiscono un nuovo rallentamento, e già dall’inizio di Lost si capisce che sarà come soffocare per più di un’ora; le lievi influenze primigenie punk\hardcore presenti ancora in Souls At Zero spariscono in maniera definitiva e a guadagnarne è l grave pesantezza dell’album, sostenuto da ritmiche mastodontiche e spesso tribali, contornate dagli ormai onnipresenti campionamenti e synth, rendendo l’album nudo e crudo, di un grigiore asfissiante, un blocco unico e indissociabile da cui è impossibile sfuggire. Il tutto condito da testi che si impegnano unicamente a scavare dentro, tralasciando la realtà circostante come se per essa la speranza fosse vana, e cercando di conservare almeno la proprià identità, che si porta avanti con una rabbia inaudita, miscelata alla frustrazione verso un passato ormai defunto. Un dialogo con se stessi, mettendo a nudo le proprie angoscie e paure, relazionandosi con una collettività fatta a persona quasi, capace unicamente di ascoltare, ma senza donare il minimo conforto. Ormai il metodo è chiaro, combattere il male con il male, e la cura comincia, nella maniera più brutale, con Lost.
Un campionamento di film ci introduce nell’essenza Neurosis, un meandro buio messo in mostra con i cupi giri di basso di Edwardson e la voce disperata di Scott Kelly, vocalist magari non pulito o tecnico, ma capace di donare emozioni vere. La luce si accende, una fioca illuminazione creata dalle chitarra dissonante di Steve, ed ecco che la composizione va a formarsi con i tocchi minimali della batteria di Roeder, e la deflagrazione arriva inaspettata, a colpire le nostre orecchie, in un sali e scendi di riff corrosivi e ossessivi, mentre alla sofferenza di Scott va ad aggiungersi la frustrazione vocale di Steve, istericismo toccante e profondo. I ritmi si fanno sincopati, singhiozzanti, e un tappeto di keys fa da base al caos meditato proposto dalla band. Meditato poiché all’improvviso interrotto da eterei arpeggi di chitarra, sopra i quali poggiano un lento e cadenzato solo e un piano. Ma ecco che che le carte vengono mescolate dall’incedere industriale del basso distorto di Dave e dai campionamenti di fabbrica di Simon, ai quali vanno ad aggiungersi rimanenti strumenti in un crescendo finale di rara bellezza. Bellezza che continua nella soave ed esotica voce femminile che introduce Raze The Stray. Un inizio ipnotico dove keys profondissime e tocchi di piano soffiati creano un tappeto che porta lontano verso un sogno, che tale non è, quando subentrano gli infernali riff di chiatarra della coppia Kelly-Von Till supportati dal drumming furioso e tribale di Roeder. Un incubo che inganna, con il ritorno delle precedenti atmosfere sognanti, ma che si tramutano in un crescendo asfissiante con il basso di Dave e gli accenni di riff di Steve, che si cimenta anche ad impersonare una fiera infernale con le sue raw vocals. Una nuova altalena sonora che richiama gli Helmet degli esordi ci percuote con violenza, come se stesse cercando il momento adatto per saltarci alla gola, la tensione sale e diventa opprimente, ma non trova mai sfogo, come è giusto che sia, infatti il vero cacciatore è quello che sa aspettare e giocare con la mente della preda. Difatti la morsa viene allentata e chitarre nuovamente acustiche tornano a rammentarci il carattere infimo e ingannatore delle belva Neurosis, che si muove barcollante come un ubriaco in una fredda notte invernale. Tanti paragoni per un’unica essenza : la disperazione racchiusa in ogni esistenza. E come tutto era iniziato finisce, triste ed evocativo dove invece del piano, sono i violini a fare da padroni.
Feriti ma vivi, proseguiamo attraverso la foresta rumorista di Burning Flesh in Year of Pig : quasi due minuti di campionamenti noise che pungono come spilli pregni di veleno. Il giusto preludio per l’inferno sonoro dell anthmica Cold Ascending.
Aperta da un ritmo che verrà poi ripreso dai Sepultura di Roots, la song cresce sotto i nostri occhi (anzi, orecchie); riff disturbanti e maligni vanno ad aggiungersi lentamente, rincorrendosi e sovrapponendosi, fino a divenire un tutto uno sotto gli ordini di Scott, che si staglia imperioso sopra il marasma sonoro, con la sua voce graffiante e rabbiosa, sempre supportata dai latratti di Scott, mentre la song si inerpica su stessa, con distorsioni e campionamenti che vanno a fondersi, in un incendio sonoro che brucia ogni cosa, che diviene con il passare dei secondi la perfetta colonna sonora per un esorcismo, trainato dal sciamano Kelly e da padre Edwarson. Naturalmente i posseduti siamo noi, e altro non possiamo fare che cacciare al di fuori il male che alberga dentro di noi. Si riamane impietriti dinanzi alle mastodontiche architetture del sound dei ragazzi di Oakland, vere e proprie muraglie sonore impossibili da salire o abbattere, di fronte alle quali si può solo spalancare la bocca e allargare le braccia per la rassegnazione. E il finale deviatissimo dove tutti gli strumenti paiono convergere in un’ unica direzione, mescolati in maniera sapiente dai samples, sono il giusto epilogo per quasi otto minuti di ordinaria follia. Follia che continua indomita in Lexicon, una scheggia impazzita dal carattere noise industriale che pesca a piene mani dal sound dgli Helmet di Meantime e dagli Unsane dell’esordio omonimo. Distorsioni disturbanti accompagnate na neri sabba vocali spalancano le porte per un andamento malsano della song che oltre ai già citati latrati vocali, presenta chitarre beffarde che entrano a loro piacimento nella struttura portante della song, sconvolgendola e sconvolgendoci. Intanto la messa procede indomita ricordando nuovamente i Sepultura, quelli di Ratamahatta. Una girandola dove le chitarre diventano quadrate e morbose, rendendo il tutto una parodia malsana degli echi “tribali” degli Swans. Quando pare che il peggio sia passato, arriva la title track in tutta la sua strisciante bellezza. Un intro fatta da campionamenti e contati tocchi di batteria, dal sapore ambient\drone, apre le danze al basso di Edwardson, che come una campana a morto scandisce i rintocchi della furia cieca che arriva all’improvviso, cogliendo di sorpresa. Chitarre violentissime che si alzano sempre più in alto come se volessero trovare la superficie dopo anni di vita sotterranea. Inquietudine allucinata e allucinante, dovuta a una nuova calma apparente che riprende il motivo iniziale, e una nuova discesa negli abissi, questa volta attesa, ma non meno assassina e paurosa. I ritmi si alzano sotto i colpi della sezione ritmica Roeder\Edwarson. Le chitarre spariscono e l’unico strumento che va ad aggiungersi sono le voci possedute di Scott e Steve. Ma il sound Neurosis è costruito su muri sonori di chitarra, ed eccole che arrivano come sempre in un’altalena di riff, che vanno a rincorrere gli interventi di basso\batteria, in una folle corsa che si potrae fino alla fine della song.
Siamo quasi giunti alla fine, ma il macello ancora non finisce, ed ecco che arriva The Time of the Beasts. Il tempo delle bestie quindi. E la song che presenta tutti i tratti del nuovo sound Neurosis, pare la colonna sonora per gli istanti dopo l’apocalisse, annunciata da trombe e violini che scavano dentro. Se si chiudono gli occhi pare di vedere le immagini di città distrutte, macerie ovunque, sangue e disperazione, richieste di aiuto che non trovano risposta, pianti di bambini rimasti soli : specchio di una realtà futura che sarà se non si ci si unisce per decidere, se non si pone da parte l’egoismo e non si inizia a esistere per il prossimo.
L’album si chiude con i 26 minuti e più della bellissima Cleanse, strumentale che riprende il mood portante dell’album, ovvero un carattere tribale, dal carattere arcaico e misterioso, sorretto unicamente da basso, campionamenti e percussioni, che pare voler tracciare la via e denunciare un’evoluzione che porta alla perdizione dell’uomo, oltre che alla distruzione della realtà circostante.
Da alcuni ritenuto l’anello debole della triade che iniziò con Souls At Zero e che culminerà con Through Silver In Blood, ma io dico invece che è una perla di nera bellezza, nonostante il suo carattere ostico ed elitario.
Una foto sul futuro lontano, per migliorare quello prossimo, così il viaggio continua, in salita ma con un barlume di speranza

Neuros

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