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Based on a work at rockedintorni.blogspot.com. .: Neurosis - Souls At Zero

lunedì 10 novembre 2008

Neurosis - Souls At Zero

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Anno: 1992 Label: Alternative Tentacles Records

Tracklist :
1. "To Crawl Under One's Skin" – 7:51
2. "Souls at Zero" – 9:18
3. "Zero" – 1:41
4. "Flight" – 4:07
5. "The Web" – 4:55
6. "Sterile Vision" – 6:20
7. "A Chronology for Survival" – 9:34
8. "Stripped" – 8:01
9. "Takeahnase" – 7:56
10. "Empty" – 1:36

Line-up:
Scott Kelly (guitar, vocals)
Steve Von Till (guitar, vocals)
Dave Edwardson (bass, vocals)
Simon McIlroy (keyboards, tapes, samples)
Jason Roeder (drums and percussions)
Adam Kendall (visual media)

Ed ecco che attraversato il ponte si ergono dinanzi a noi le porte dell’anima. Abbiamo paura ad entrare nel buio, ad alienare i nostri sensi, sentire l’inebriante profumo dl vuoto, lasciarci cullare dal nulla infinito. Non vorremmo trafiggere l’oscurità, ma una mano rassicurante ci fa cenno di proseguire, la mano di chi è ormai abituato ad aggiungere orma su orma, ed è riuscito a manovrare quella materia che prima si ergeva dinanzi, o dentro di noi. La mano di una band che si è spinta oltre, plagiando l’inquietudine interiore a propria immagine e somiglianza, incorniciandola e rendendola manifesto sonoro di un dominio che dura nel tempo, erigendo un muro sonoro sul quale saranno infissi in seguito i successivi capolavori, tramutando quel muro in una galleria davanti alla quale non si può far altro che rimanere a bocca aperta, contemplando con infinita ammirazione entità che fino a poco prima temevamo avvicinare. Questa è la grandezza dei Neurosis.
Registrato da Bill Thompson agli Starlight sound di Richmond tra il marzo e l’aprile del 1992 l’album abbdanona in maniera quasi totale la furia giovanile hardcore, a favore di un sound ormai lento e ipnotico, fatto da song ormai della durata media di sei e più minuti, ma che ha poco a che fare anche con gli accenni sludge di The Word As Law, poiché il sound è potente e maestoso ma le chitarre allo stesso tempo paiono vibrare libere e leggere nell’aria costruendo affreschi sonori nuovi e d’avanguardia, riuscendo a fare luce nel buio, proprio grazie alle tenebre che portano dentro, coadiuvate dalla nuova presenza di strumenti come trombe, flauti e violini, dando spazio maggiore a quelle chitarre pizzicate di matrice folk (apocalittica a loro dire) che saranno predominanti in futuro. Il carattere introspettivo è reso in maniera chiara anche dai testi, mai così ispirati e influenzati dai moti che colpirono Los Angeles nei primi mesi di quell anno e sfociati e nei 4 giorni di guerra civile che portarono alla morte di 54 persone, dovuti al proscioglimento dei poliziotti che massacrarono Rodney King, nonostante vi fosse un filmato visto dalla nazione intera a testimonianza della barbarie compiuta. Testi che sono quindi specchio di violenza e inquietudine, malessere e speranza vana, dolore e morte. Ma in fondo a questo macabro tunnel una pacata protesta, intelligente, che sta a simboleggiare la voglia di cambiamento. L’album si apre con un classico (a posteriori) della band : To Crawl Under One's Skin; subito si respira il cambiamento, un’aria nuova, ma non fresca e limpida, ma perfetta nel suo carattere lugubre ben definito. Rintocchi di campana e successiva distorsione aprono le danze, cesellati dalla recita effettata di Scott. Tutto si ferma per qualche secondo ed ecco che subentrano prima effetti chitarristici nuovi, poi chitarre acustiche e per finire i mastodontici riff trainanti della song. L’effetto è straniante, ditorsioni continue paiono presentare l’instabilità mentale dell’uomo, mentre tribali patterns di batteria aprono l’esplosione che arriva di lì a poco. Ed ecco che pare evidente la fonte dalla quale attingono tutte le band dedite al moderno post-hc. Tempi precisi e mai elevati, efferatezze vocali che risuonano lontane, arabeschi dove si incontrano riff acidissimi e arpeggi sognanti. Progressioni sonore dal carattere multiforme, dentro le quali si ripresentano preghiere sofferte e ritmi tribali instabili, e come tali esplodono nuovamente, malgni come non mai, finendo in una disturbante distorsione. Ancora scossi dal martirio sonoro iniziale arriva la title track, con il suo riff esotico (ma sempre nell’ottica Neurosis) contornato da un piano venefico e schizoide, mentre iniziano a odersi i ritmi lenti e sulfurei in lontananza. Un minuto di trip assoluto dove è lecito perdersi che si frantuma in schegge impazzite che finalmente citano il carattere industriale degli Swans (quelli della metà degli anni ’80). Nessun cedimento, nessuna tregua per le nostre orecchie flagellate, che riescono a cogliere la linfa originaria dalla quale hanno preso spunto i Mastodon. Melodie agrodolci si presentano beffarde nel corso della song, come a schernirsi della nostra disperazione. Un vortice sonoro che si chiude con il sound martellante e ossessivo che avevamo trovato all’inizio della song, con quella melodia infima che continua a fare capolino. Zero è pseudo strumentale che riprende il motivo trainante della track precedente, inquietante come poche. Arriva Flight, il “volo” , e la song pare davvero elevarsi, introdotta dal basso di Edwardson e dalle chitarre possenti di Scott e Steve che montano pezzo su pezzo un impalcatura noise che riprende il soun di Unsane ed Helmet, circondata da keys imponenti che ne elevano il pathos ai massimi livelli. Un blocco di sedimenti che scendono da una montagna, e all’improvviso la quiete assassina dell intermezzo acustico di chitarre, flauti e violini dove Scott pare uno sciamano moderno, intento ad ipnotizzare le masse, protraendo il proprio sermone sino alla fine della song. Ma non c è tragua perché uno spezzone tratto da un film fa da antipasto al riff devastante e schiacciasassi di The Web. Intrappolati nella ragnatela costruita da Roeder, il quale inizia a stuprare la sua batteria in maniera precisa e minimale mentre le voci di Scott (la più sguaiata) e quella di Steve (quella più profonda) si rincorrono rabbiose e frenetiche si intrecciano e si mollano creando un buco nero di suoni al quale anche Dave contribuisce con i suoi giri di basso magnetici, meno presenti sicuramente, ma più ragionati, inseriti al momento giusto, per arricchire il mosaico, che viene finito con le chitarre tirate e la batteria ossessiva. Un momento di tragua inscenato dall’intro di Sterile Vision ci fa abbassare la guardia per un momento, e scoperti arriva la sterzata elettrica che ci colpisce e fa male, cresce, si increspa, percorre indomita il suo cammino, e come un onda che colpisce il litorale, si ritrae e pare ritornare la calma, ancora con le chitarre acustiche che si ergono sopra un tappeto di keys, ma l’illusione di quiete dura poco, perché la rabbia non è ancora sopita e l’onda colpisce nuovamente ora sostenuta da apocalittiche trombe che paiono preannunciare la fine di ogni cosa, rendendoci deboli al loro cospetto. La song termina addirittura cullata da armonizzazioni di chitarra che si spengono lentamente, perse nell’oblio, e succedute per un attimo dall’intonazione di una funzione religiosa. Ed ecco che maestosi e profondi giri di basso al quale vanno ad aggiungersi soffusi arpeggi di chitarra fanno da incipit per la song manifesto dell’album, la più lunga e complessa, più di nove minuti di trip mentale con A Chronology for Survival. Entrano le chitarre distorte e la voce di Scott che pare lanciare anatemi antichi, con la sua voce che pare posseduta (non per altro vengono definiti “Shamans”) a fare da contrafforte alle chitarre che si alzano imponenti e massiccie, i ritmi si alzano ed effetti si sampler vanno a creare un’atmosfera spaziale di sottofondo che va a riposarsi per un attimo nel basso di Dave e nella chitarra di Steve, per poi riprendere forza, più di prima e muovendosi violenta come una belva in gabbia. Non si riesce a controllarla, ma ecco pronto il sedativo di chitarra e violino che addormenta la realtà circostante. Anche quando subentrano nuovamente chitarre possenti tutto pare immobile ed etereo, sintomo che il violino, che ancora suona, subisce l’effetto sperato, ovvero incantare l’ascoltatore. Il cammino è quasi giunto al termine ma ancora è presto per cantare vittoria perché Stripped arriva appunto per denudarci della speranza, forte di tutte le componenti dellìalbum : arpeggi, voci gemelle, muri sonori dal falvoru industrial, noise, e in alcuni frangenti sludge, distorsioni profondissime e nervose, litanie vocali, gong, keys evocative, campane tombali, esplosioni ieratiche, flauti e addirittura un solo in dirittura d’arrivo della song. Il buio e il dolore ormai fanno parte di noi, la paura per essi è svanita e una nuova linfa si appresta a crescere e diffondersi, con un rinnovato animo ci si appresta ad ascoltare Takeahnase, che parte acustice e sofferta, come una pioggia autunnale, ma esplode in un attimo come un urlo di liberazione che squarcia la notte, tutto è quadrato e violento, dalle chitarre alla batteria, strisciante ed epico allo stesso tempo. Ritorna la calma, prendiamo fiato, qualche secono per fare mente locale e possiamo riprendere ad urlare con più vigore di prima. Il riff portante è uno dei più evocativi mai sentiti, pregndo di una melodia maligna e pungente, chiave di volta della song, che lentamente si porta a morire, chiudendosi su esso. La rabbia è svanita, e un sentimento di pace ci pervade, racchiuso nella track finale e delicata di Empty. Un paradosso, poiché di vuoto dopo quest album non ne rimarrà traccia, anzi riesce a trasmettere nonostante la sua ostilità, un sentimento di pace interiore, unico e indescrvibile.
Da molti considerato il migliore dei Neurosis, altri (come il sottoscritto) lo considerano un ennesimo gradino posto al posto giusto per il futuro elevarsi del sound della band, altri lo paragonano a Through Silver In Blood, sta di fatto che l’album è un grezzo capolavoro di musica d’avanguardia.
Il viaggio subisce una svolta quindi, ora si è pronti per addentrarsi nelle profondità dell’animo, sicuramente più nascoste e misteriose, ma non più buie, perchè oltre il nero è impossibile vedere.

Neuros

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