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Based on a work at rockedintorni.blogspot.com. .: Cult Of Luna: Somewhere Along The Highway (2006)

martedì 28 ottobre 2008

Cult Of Luna: Somewhere Along The Highway (2006)



Etichetta: Earache

Anno: 2006

Tracklist:
1. Marching To The Heartbeats (3.17)
2. Finland (10.50)
3. Back To Chapel Town (7.13)
4. And With Her Came The Birds (6.03)
5. Thirty Four (10.03)
6. Dim (11.50)
7. Dark City, Dead Man (15.47)

Line up:
Klas Rydberg – voce
Johannes Persson – chitarra, voce
Fredrik Kihlberg – chitarra, voce
Erik Olòfsson – chitarra
Andreas Johansson – basso
Thomas Hedlund – batteria, percussioni
Magnus Líndberg – batteria
Anders Teglund – tastiere

Partiti sullo sterrato dell’esordio omonimo, proseguendo sull’asfalto secondario di The Beyond, incrociando strade cittadine con Salvation, ecco che i Cult Of Luna si allontanano nuovamente, solitari e imperterriti, verso la Highway.Eredità pesante quella dell’istrionico combo svedese. Gravava sulle proprie spalle la mole importante di un album di caratura cristallina e superiore come Salvation, la consapevolezza di aver spalancato le porte del gotha di un genere elitario e oggi inflazionato come il post-core, l’ombra dell’eredità di una band come gli Isis, senza dimenticare la fondamentale influenza della madre di tutto, ovvero i Neurosis, senza diventarne infimi emulatori (un suono infatti non ispirato direttamente dalla band di "Through Silver In Blood", ma dalla quale ha sicuramente tratto giovamento dal contesto, aperto alla contaminazione evolutiva, che ne è scaturito).
Dimostrare che ormai i (defunti) Breach da maestri avevano abdicato a loro favore, e rispondendo all’appello di chi vuole le band svedesi (Umea, piccola cittadina, ha dato i natali anche a Meshuggah e Refused, facendomi interrogare su quale polvere sottile vibri nell’aria del posto) tra le più innovative della scena rock odierna.
Curando ogni minimo particolare, isolandosi da tutto e da tutti, come distrata la produzione ad opera dell’eclettico batterista Magnus Lìndberg, motore della band in ogni direzione, dalla supervisione all’artwork (stupendo, semplice, etereo, magniloquente, cupo, infetto) alla stesura delle lyrics insieme a Perrson, prima ribelli, antagoniste, capaci di accanirsi contro la globalizzazione, i diritti dell’uomo e degli animali, violente, ora invece, sempre più improntate a una soffusa introspezione (quì siamo davvero vicini ai Neurosis) dell’individuo, costretto a camminare solo, senza nessuno sguardo da incrociare, senza alcuna guancia da accarezzare, senza una meta alla quale aspirare.
Inizia la passeggiata sopra la Highway, ma non da intendere come facevano le band rock degli anni passati, ovvero un luogo di baldoria, di velocità, di spensieratezza, di libidine (Highway To Hell ad esempio), ma un luogo al margine, dove abbandonarsi ai propri pensieri, lasciar scorrere il loro flusso in maniera inesorabile, perdersi nelle luci al neon e guardare di sotto una vita frenetica che più non gli appartiene, chiudendosi nelle spalle, e facendosi guidare dal destino, che accarezza spesso, ma non sempre, le nostre vite.
Ecco che una fioca luce lontana, donata dalla speranza, arriva ad indicarci la via, sfocata, ma desiderata e seguita quindi, un lontano battito di cuore, della persona amata forse, ecco Marching to The Heartbeats:

“The sun, the light in your eyes, trapped me in a cage.When you saw me you saw yourself.We were the ones that marched and fell.”

Un cantado caldo e dolce, che si adagia maestoso su distorsioni di chitarra tirate fino allo spasmo, mentre il basso di Andreas predomina su ogni cosa, conducendo una danza fioca, ipnotica, scandita da lontani tamburi, quasi impercettibili, mentre flebili note di piano si affacciano timide, quasi a voler affermare in maniera gentile la loro presenza. Un intro di lisergica bellezza che ricorda da vicino gli ultimi esperimenti degli Earth, in particolare quelli di HEX: Or Printing In The Infernal Method. Livelli altissimi quindi.
La difficoltà della vita, le sue mille asperità, che stanno ogni momento in agguato, dietro angoli che spesso non si riesce a vedere, e violente ci aggrediscono, come Finland. Camminare nei ricordi, ecco cosa, camminare tra le immagini lontane, immagini che feriscono, immagini di egoismo e disperazione, come la la propria consacrazione a discapito dell’innocenza dei bambini, ricordi di un passato che torna a galla e infila le proprie dita nel cuore, schiacciato dal peso della scalata, scalata verso la propria felicità:

“These things moved me when I turned my back. Now I return with open hands.I found light that lead me to the shrine where children sang and pilgrims mourned.I was lost but not alone.From a distance they come alive. Sleepwalking across the plains.No answers were found here. Seeking shelter in her embrace.Down on sore knees. Erase and begin. Under my eyelids, come forth light.”

Ecco che si aprono scenari inquietanti, dopo la deflagrazione iniziale arrivano arpeggi acustici di derivazione post-rock a prendere il sopravvento su ogni cosa, in una jam session tra la raffinatezza degli Explosions In The Sky e la rabbia repressa dei Mogwai di Come On Die Young. Calma apparente che si fa in mille pezzi con i riff secchissimi del trio Johannes Persson-Fredrik Kihlberg Erik Olòfsson che feriscono la song più volte, come solo la coppia neurosisian Kelly-Von Till ci ha abituato. Giri semplici che girano intorno a un drumming ossessivo e marcatissimo, opera della coppia Lìindebrg-Hedlund, capace di martoriare lentamente il proprio drum-set, mentre Rydberg da sfogo alla sua rabbia con un growl possente e disperato, dando voce alle sue domande senza risposta, alla sua fragilità che viene manifestata nel finale, scorribanda strumentale dove le chitarre squillano aquiline, grazie ad un effetto pseudo-mandolino caro ai This Will Destroy You.
Ed è alla stessa maniera che si apre Back To Chapel Town:

“Floating over empty streets. Away from pain, away from everything.Pray that we will survive the night. Buildings falling, the soul vaporised.Watching you sleep, but I know that your heart has grown cold.Let me dream if only for tonight, that we leave together in the first morning light.Alone and forgotten. I bow my head in shame.Before you all answers reveal. So I sink my sorrows in the sea.”

Ecco che si attraversa la propria infanzia, grigia, rinchiusa dalle mura inespressive della città, sopra le quli sfogare la proria rabbia, mentre il sange esce dalle nocche, e una sensazione di pace instabile si insinua nel profondo dell’animo, andando a intaccare come petrolio su una spiaggia, i sogni rimasti, i sogni di redenzione e luce, ciechi dinanzi alle risposte.Echi pink-floydiani, che provengono direttamente da capolavori immortali quali Dark Side Of The Moon, Meddle e A Saucerful of Secrets, e proprio qua risiede la grandezza del combo svedese : riuscire a inglobare miriadi di caratteristiche, anche abusate nel panorama musical, ma donando loro nuova linfa, carattere proprio, proprio per questo, musicalmente parlando, li ho sempre definiti i Pink Floyd del 2000, paragone azzardato, vero, ma personale e sentito. Riff scarni e dilatati, memori degli esordi ancora influenzati dallo sludge, come avvenne per gli Isis, ma, come la band di Aaron Turner, evoluzione è la parola d’ordine, ed ecco che i lidi lambiti sono quelli del monumentale Panopticon, un cammino distorto, uguale nell’apertura e nella chiusra. Un brano violento e cupo.Ed ecco che la dannazione iniziale torna a insidiare la mente, con With Her Came The Birds, parentesi dannate e delicata, dove si corre verso ambienti lontani, quasi dimenticati, una dannazione che desidera morte, una sofferenza che deve finire, in pasto ai corvi, ed ecco che lontana una figura si staglia, lei, che arriva nel momento della fine, per aiutare o finire? Questo non è lecito saperlo, mentre avanzano con lei, gli uccelli:

“Night falls, silence takes a grip. Guilt I retrieved, a burning will to die.I need this to be over before I am bleeding dry.Somewhere along the highway these tracks must end.I pass a crowd on my way to the house on the hill.Dead man with pitchfork arms tells me all that he knows.Leave me here for the crows.In the Fall she came back, and with her the birds.”

Un anfratto acustico che cita I progetti solisti di Scott Kelly e Steve Von Till, una piccolo spiaggia tranquilla fatta di arpeggio appena distorti e fumosi, un pò Red Sparowes un pò blues, mentre in lotananza addirittura echi country di un banjo fan capolino, a voler ribadire le capacità di sperimentazione della band, che nel suo lento ma inesorabile procedere, scalfisce l’apparato emozionale dell’ascoltatore, e, come un acqua cheta fa crollare i ponti, loro radono al suolo le difese emotive, in un turbinio simbiotico tra noi e la band.Una simbiosi che acquista maggiore forma nella semi-strumentale Thirtyfour.I suoi occhi, il suo sguardo come punizione, un sogno debole che sparisce all’alba, come tutti i sogni. Si aspetta la fine, in silenzio. La sua figura quasi impercettibile, quasi inesistente.Momenti di pace, dove il vento soffia lontano la sabbia, riportandola magari nei luoghi dalla quale essa proviene. Dietro le dune la falsa speranza aspetta chi ha perso quello che amava:

“In her eyes he stares at his reflection. A faint dream, that disappeared at dawn.Standing at the shore patiently waiting. But the waves do not return when she is gone.So he followed her footsteps, to the highway that sealed his fate.The wind blew all sand away. Faceless people that walked astray.Behind the dunes false hope awaits the ones that lost what was loved.”

Un’altalena emotive incredibile dove dissonanti esplosioni chitarristiche si alternano a momenti di dolce quiete con le sue chitarre scandite come solenni rintocchi di campane, e il suo canto aggressivo e tagliente su crescendo sonori, voli pindarici di pura classe musicale che, come s'intuisce, al culmine dell'aggressività, si abbelliscono di un bellissimo e smorzante giro di tastiere, che ricama scenari accoglienti, figli di un tempo che non c’è più.
Che la fine sia imminente?Lei guarda dall’alto, impassibile, guarda e silente gode della nostra situazione, mentre nuvole scuro muovono a coprire il cielo, quasi a voler separaci dall’infinito del cosmo e rendere quel momento intimo, una balletto solitario da danzare all’infinito, mentre gli uccelli volano sopra la testa, e confondo i sensi, mentre si pensa alla propria speranza perduta, e come giocavamo con la vita nostra e quella degli altri. Dove si è persa la memoria di tutto?Ma forse è solo un cammino impervio per l’espiazione dei peccati, per trovare un luogo dove i nostri cuori battano come uno. Questa è Dim:

"From the skyline dark clouds move in. They shroud me with her cold cover.Eyes like daggers puncture the skin. Isolated in a room with no others.Where do I turn when all hope is lost? Where do I find forgiveness?My search for salvation has begun. To find a place where our hearts beat as one."

Si ritorna a battere territori più apertamente contaminati, con la partitura in evoluzione per tutta la durata, sibillina, sempre al limite, una varietà strutturale e sonora, qualche lampo di elettronica affiancato alla batteria possente, le chitarre dilatate che a tratti sembrano slide, ripetute fino allo spasmo, l'esplosione vocale di chiusura che sembra l’urlo finale di un dannato.
E si arriva all’epilogo dunque, inaspettato, o forse no. Dark City, Dead Man. Una città oscura, un uomo morto. Forse la città oscura che risiede all’interno di noi.Perché non arriva epilogo, una ricerca eterna, dannata, come punizione o dedizione. Voluta o forse odiata. Perché lascia nel limbo, como gli ignavi, come coloro incerti del loro futuro:

"When the streetlights fade. Warm rain like judgement descends.Their voice numbs me. Speaking words in a dead tongue.I have walked a road that lead me back to you.From a window our glances met. My true colours I cannot hide."

Tutti gli elementi del disco vanno a confluire in un perfetto giro reiterato (con qualche piccolo intervallo/variazione), per chitarre post-core emotive e violente , batteria incisiva e urlo disperato (i primi 6 minuti) che scivola in costante crescendo strumentale sino all'esaurimento delle forze (ultimi 10 minuti), con lontani echi trip-hop e campionati, elettronica e sangue amaro, arpeggi distorti e ritorni acustici, rabbia e felicità, vita e morte,mentre la pioggia scende in maniera silenziosa, a bagnare il viso, e coprire le lacrime.

Neuros

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