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mercoledì 29 ottobre 2008

Cult Of Luna: Eternal Kingdom (2008)


Etichetta:
Earache

Anno:
2008

Tracklist:
1. "Owlwood" - 7:39
2. "Eternal Kingdom" - 6:41
3. "Ghost Trail" - 11:50
4. "The Lure (Interlude)" - 2:33
5. "Mire Deep" - 5:10
6. "The Great Migration" - 6:32
7. "Österbotten" - 2:19
8. "Curse" - 6:30
9. "Ugìn" - 2:44
10. "Following Betulas" - 8:56

Line up:
Klas Rydberg - vocals
Johannes Persson - guitars, vocals
Erik Olòfsson - guitars
Fredrik Kihlberg - guitar, vocals
Andreas Johansson - bass guitar
Anders Teglund - keyboards, samples
Thomas Hedlund - drums, percussion
Magnus Líndberg - drums, sound engineering

Si potrebbe dire che sia il nono membro dei Cult Of Luna. Si potrebbe dire che sia stato il loro nume ispiratore. Si potrebbe dire che è stato il destino. Si potrebbe dire che sia solo una fantasia.
Si potrebbe quasi dire qualsiasi cosa.
E’innegabile però che il quarto parto della band di Umea sia legato con un filo indissolubile all’oscura figura di Holger Nilsson. Chi fu questo personaggio? Sono i COL stessi a tramandarcelo tramite le paroe di Johanees Persson, il quale narra dell’incontro con Nillson avvenuto in un manicomio istituzionale sperduto tra i boschi svedesi. Nessuna stretta di mano però, nessuna parola, Holger viveva nei suoi stessi manoscritti : “Racconti da Eternal Kingdom”; accusato dell’omicidio della moglie e condannato all’ergastolo, passò i suoi anni a scrivere e disegnare di quel mondo sconosciuto ai più, quel mondo dove convivono salute e malattia, sanità mentale e pazzia, delineati da confini spesso soggettivi. E’possibile che Holger Nilsson sia stato innocente, non lo sapremo mai, ma possiamo cercare di comprendere il genio instabile che sta dietro quest’album, ripercorrendo il suo cammino attraverso ogni canzone.Dopo un disco spartiacque come Somewhere Along The Highway, capace due anni fa di aprire nuove strade a un certo tipo di post-core, i Cult Of Luna erano chiamati alla definitiva presa di coscienza dei propri mezzi che portasse alla consacrazione, raccogliendo i frutti di quanto seminato nei tempi precedenti, chiudendo quel cerchio iniziato con The Beyond.
Ed è proprio da quel primo album che la band riprende forza, passo quasi scontato alla luce (termine quanto mai inappropriato) del diario di Nilsson, filtrando ogni passo tramite i repentini cambi di umore di Salvation e la solitudine di SatHw.
Owlwood da il suo amaro benvenuto a chi sceglie di entrare in quest’album, a mani aperte, grosse mani che schiaffeggiano. I riff si sono fatti decisamente più pesanti rispetto al passato, e la frustrazione vocale di Klas Rydberg è prova tangibile di questa rinata pesantezza. E’lui Holger Nilsson, è lui il narratore che fa strada nei dintorni del manicomio, che presenta le stanze, che incontra i suoi tetri inquilini. Un istituto immerso nel verde, ma oltre quel verde vi è il nulla.
Il suono è saturo come non mai, le chitarre però non erigono un vero e proprio muro sonoro, ma si rincorrono in un riffing ben distinguibile, che sposta il baricentro della band dagli originari gradini sludge verso un dannato piano doom. Gli arpeggi di Erik e Fredrik fanno il resto per portare il silenzio sul componimento, mentre in sottofondo i samples di Anders sono sibillini, instabili.
E dopo tutto il clangore iniziale la canzone si chiude nella più inattesa dolcezza.
Dura poco.
La titletrack è un guanto di sfida verso la legge che si è fatta mattone, verso la mano spesso corrotta della giustizia che non rispetta essere alcuno, confinando i propri figli in luoghi dove nemmeno le bestie dovrebbero vivere. Una furia ceca che si abbatte sull’ascoltatore e salta da un riff all’altro, mentre il basso di Andreas di nascosto piange. Con una mano al petto Klas grida tutto il suo dolore, sentimento di chi vede il proprio passato lontano, che non tornerà più. Le claustrofobiche atmosfere sono intervallate da piccolo spiragli di luce, dove filtra una tenue melodia, alter-ego di ciò che accade in superficie. Il finale rallenta il passo e si fa distorto, battendo sui freddi muri di quella prigione, per mettere in chiaro ancora una volta quanto siano fredde quelle mura.
E’un cammino fisico quello che si compie, ma più passa il tempo più ci si dirige verso l’altra (eterna) faccia della medaglia, l’edificio che sta dentro ognuno di noi, quell’impenetrabile palazzo che è la mente umana.
E così Ghost Trail arriva in punta di piedi, introdotta da una marcetta che ricorda il flusso di pensieri di Joyceiana memoria. Le atmosfere si dilatano, si fanno rarefatte, crescono poco a poco, si separano in frammenti, si spargono al cielo notturno e volano in alto, dove arriva il solo di Johannes. Si un assolo liberatorio, inusuale per i Cult Of Luna, inusuale per il genere, ma allo stesso tempo di una bellezza struggente, accompagnato dal piano , che ferma il tempo e pare quasi dare speranza in quel luogo di desolazione, dove la civetta continua a guardare, a controllare, a punire, come l’occhio di The Beyond, ma spesso e volentieri decide di girarsi dall’altra parte e tradisce. Vede tutto e distorce tutto. Un crescendo emotivo inaudito.
Che si spegne.
La testa inizia a remuginare, inizia a dondolare avanti e indietro in maniera costante, sudore che imperla la fronte, pulsazione che aumentano, con il basso che cresce e i rintocchi elettronici che scandiscono il tempo. Mani che tremano. Rabbia che esplode.
E’una chiusura tra le più pesanti mai udite in casa COL, opprimente, nera come la pece, sguaiata, memore delle efferatezze compiute da moloch come gli Ufomammut.
The Lure è un interludio strumentale di pregiata fattura, una tentazione appunto, dove dolci chitarre si incontrano con i suoni di un carillon e con trombe lontane (opera di Erik Palmsberg). Una parentesi barocca dopo tanta violenza. Si è sempre nella mente di un condannato all’ergastolo.
La discesa riprende, continua imperterrita con Mire Deep. Da una parte la tranquillità della parte strumentale, dall’altra l’irrequietudine di Klas. Parole che salgono oltre le fronde degli alberi e si elevano al cielo invernale, si alzano verso la natura più selvaggia. Che risponde.
Il drumming di Thomas si fa serrato, potente, colpisce dritto allo stomaco e non lascia prigionieri, bastano già quelli dell’istituto. La Locust Star di Eternal Kingdom è appena esplosa.
The Great Migration è una lenta e sofferta marcia di riff sfilacciati e gonfi di odio, sbilenchi, come solo i Breach sapevano fare, ma i COL ci aggiungono tutto il loro alone dannato, come una supllica rivolta alla verità, che ancora una volta volta lo sguardo, e lontano da lei tutti trovano unicamente il proprio inferno.Da questa prima metà del tragitto emerge uno spiccato ritorno alle atmosfere più nefaste di The Beyond, ben rappresentato anche dalla tematiche della civetta, che come il Panopticon sta sopra ogni cosa. Le progressioni di Salvation non mancano di certo, le parti più pacate di SatHw paiono scomparse, e invece no, ascoltando attentamente se ne sentono perennamente gli echi in sottofondo e soprattutto nella scelta dei riff, ben scanditi, come dei rintocchi a morto. Una produzione notevole, opera di Magnus come sempre, che conferisce un suono tondo e corposo, che pone la sezione ritmica in rilievo come da tradizione svedese. Pare un sunto di quanto fatto in tutta la carriera, vero, lo è, ma dall’ascolto attento possono emergere questi e tanti altri nuovi particolari. Si è voluto fare il punto della situazione, e considerando la giovane età del combo, ben venga, contando che ci sono almeno altri tre o quattro album all’orizzonte. Sempre con la consapevolezza che non abbiano mai sbagliato, e con quest’album vogliono ribadirlo.
Osterbotten riprende le danze e ripercorre le sperimentazioni elettroniche proposte nell’album precedente, come un drum n’bass drogato e imbottito di tranquillanti, rivestito di un alone cosmico. Lo stesso alone maledetto che imperversa per tutta la regione.
Curse è un ricordo, una memoria che preferibilmente dovrebbe rimanere nascosta ai margini della mente, e invece riaffioria nelle glaciali notti invernale, quando anche il ghiaccio che si spacca nel Baltico pare produrre fragori immensi. Lenta, lentissima, malinconica, Curse cammina sul baratro della pazzia come nessun’altra delle canzoni di Eternal Kingdom, con un blocco centrale nervoso e multiforme, che si fa distorto e poi saltellante grazie a Thomas, con le mani di Holger che affondano nel viso. Mani colpevoli. Terra maledetta.
Ugìn è un blues svedese semplice e accattivante, forse uno scherzo trovato tra le pagine di Nilsson, forse un piccolo tributo agli ultimi Earth, chissà.
Following Betulas. La fine del racconto. La fine del viaggio.
Si intravedono tra le chitarre i suoni che hanno reso grande un album come Oceanic, ma i Cult Of Luna ci mettono una rabbia inaudita, una sezione ritmica viva come non mai, mentre le chitarre disegnano arabeschi psichedelici insieme ai loops elettronici di Anders.
Paiono convinvere in nove minuti le anime di tutti i residenti del manicomio, ci sono dita che battono sui tavoli, ci sono pianti silenziosi, urla belluine, ci sono l’autoritarismo delle guardie che piacchiano, c’è la voglia di fuga, sia solo con la mente.
E’un Nilsson sul promontorio che porta alla pazzia, che con un ultimo barlume di lucidità chiede perdono, condanna il sistema, condanna la sua terra, guarda negli occhi la civetta, non c’è alcun bisogno di parole. Momento solenne.Il cuore batte sempre più forte, al ritmo di Thomas e Andreas, lo sguardo rivolto a luna sempre più bassa, la consapevolezza che la vita sia finita da molto tempo ormai, solo il fruscio delle betulle lontane dona un ultimo alito di conforto, e, solennemente, piangono anche loro. Suono di trombe, rullo di tamburi, mani al petto, entra il freddo. Il viaggio è finito.

Umea vede Boston.

Neuros

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