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giovedì 23 ottobre 2008

Crowbar - Odd Fellows Rest (1998)



Anno: 1998

Etichetta: Mayhem/Fierce

Tracklist:
1. Intro
2. Planers Collide
3. ...And Suffer As One
4. 1,000 Years Internal War
5. To Carry The Load
6. December's Spawn
7. It's All In The Gravity
8. Behind The Black Horizon
9. New Man Born
10. Scattered Pieces Lay
11. Odd Fellows Rest
12. On Frozen Ground

Line-up:
Kirk Windstein - Guitar, Vocals
Sammy Pierre Duet - Guitar
Todd Strange - Bass
Jimmy Bower - Drums

I mostri dell'underground di New Orleans, i Crowbar, dal 1989 alla metà degli anni '90, diventano famosi per la messa a punto dell'immaginario nonchè del suono sludge, insieme ai loro colleghi Eyehategod ed Acid Bath, tanto per citare i più caratteristici.
La formula era di una semplicità quasi ovvia, e come tutte le cose ovvie, una volta trovate è diventata una specie di regola aurea, la quintessenza del rock pesantissimo che più pesante non si può, per via della totale fiducia nella catarsi attraverso la canzone heavy metal portata all'estremo nel modo più zoticone e rozzo possibile, attraverso un appesantimento dei Black Sabbath previa eliminazione di ogni virtuosismo, ed è per questo che non raramente veniva fuori una autentica passione per l'hardcore/grindcore un po in tutta la scena: niente fumo e tutto arrosto, un po come i primi Melvins, presi e declinati in tutte le possibili varianti.
Il suono saturo ed asfissiante, il senso di malessere e disagio ricercato e indotto dalla "canzone" sludge, che essenzialmente funziona come una carovana di condannati a morte, legati piede e piede con le catene (lentezza, senso di morte imminente, estrema staticità), ben presto diventano un vero e proprio marchio di fabbrica, un modus operandi abusato, e nella seconda metà degli anni '90 la stragrande maggioranza dello sludge che conta, prova a cercare varianti interessanti (Iron Monkey, Breach, Bongzilla...) e tra questi i Crowbar, nel 1996, nel loro album più heavy già segnano quella che sarà, dal mio punto di vista, la loro arma vincente di li a poco: "Can't Turn Away From Dying" e "Nothing"(la cui conclusione è allo stesso tempo la negazione della regola "di stile" vista sopra) erano l'aspetto migliore e più saliente del monolitoco "Broken Glass", più che basati sullo sfondamento a tutti i costi, erano tentati dalle contraddizioni tra suono sludgy e senso della melodia, innestando inaspettati clean vocals, nonchè momenti di sottile calma e mistici sussurri tra le voluminose abrasioni e le regolari propulsioni dell'avanzare magmatico del suono, ora più corposo e meno istintivo che in passato, e più lento. La metafora del vetro rotto è emblematica della musica della lacerazione dei Crowbar, l'anelasticità della rottura è il simbolo della solidità estrema che la band vuole impersonare, una creazione tanto possente quanto intimamente fragile, che si spezza ma non si piega mai.

"Odd Fellows Rest" è l'album della svolta, nel 1998. Non una cosa marcata, ma chiara e palpabile anche da aspetti oggettivi, come la presenza di un intro, di per se singolare per una band che non si è mai fatta problemi quando si trattava di andare direttamente al punto della questione. Chi ci ha abituati all'eliminazione programmatica di qualsiasi abbellimento, di qualsiasi lavoro di limatura e di tutti i giri di parole, si concede un'introduzione che, a prescindere dai contenuti, che non fanno altro che anticipare il primo brano, segna la volontà di voler trattenere un attimo il respiro, pensarci su, e poi riprendere con lo sforzo.
Un altro aspetto oggettivo è il minutaggio più elevato, che è solo il risultato finale di una struttura dei pezzi molto meno lineare, molto meno rozza, quindi basata più sulla paziente rilettura del metal sudista in chiave più tozza possibile fondendolo con la cupezza dei Black Sabbath, non più estrapolandone e dilatandone qualche riff, ma facendone proprio il gusto perverso e ligubre per la pensierosa e tremante staticità.
La copertina esprime altre due componenti, a mio modo di vedere, non trascurabili: innanzitutto l'unione (fusione) dei componenti della band, che più di una citazione dei Queen, mi pare una sorta di simbolo di una musica ora più che mai corale, che non lascia mai spazio ai singoli componenti, che praticamente si fondono in un solo corpo, un solo cuore, una mente sola. Il secondo aspetto, che completa il primo è il senso di sofferenza, nei volti innanzitutto, poi nella musica; quella copertina non si fa problemi e come di consueto senza giri di parole sbatte in primo piano il vero oggetto del discorso, ossia la sofferenza che solca i visi della band, che a sua volta è un leviatano, un organismo complesso fatto da più entità che insieme formano un qualcosa che è molto più che la sommatoria dei vari membri. Il volto della sofferenza, e la musica della sofferenza.
Questa, al dilà di tutto il resto è la corretta chiave con cui poi riascoltare il disco, più che per confermare i luoghi comuni, per trovare le specificità dei Crowbar e di questi Crowbar della fase più emotiva della loro carriera.

Salvation
Soul searching for lost innocence
I feel it coming, coming in waves
Created my own world
The angels they carry me
It's such a long way home

L'album in definitiva non colpisce per l'intransigenza, come quelli che lo precedono, ma per il senso della melodia (grande conquista), per la capacità del gruppo, nel riuscire a ricavare una via alternativa, presentando brani diversi tra loro (altrettanto grande conquista), con maggiore profondità e capacità di estendere il registro sonoro e lirico dai toni più cupi e aspri che ci siano a momenti in cui è possibile trascendere questo dover-essere, in soluzioni ampiamente atmosferiche anche se sempre legate alla nuda terra. In questo senso dell'atmosferico e allo stesso tempo dell'incredibilmente corporeo c'è il vero e proprio segreto di questi Crowbar. Il resto sono solo chiacchiere, perchè di duri ce n'è di più duri, di tecnici ce ne sono molti di più, e infatti i Crowbar non vogliono ne fare i duri, ne fare i prof di musica ma, giunti al quinto album, vogliono provare l'impossibile: mettere il sentimento nello sterco putrido.
Kirk Windstein alla voce e alla chitarra (aveva iniziato da poco l'esperienza nei Down), che è la penna e la mente del gruppo, questa volta incrocia le sue corde con Sammy Pierre Duet , mentre al basso c'è Todd Strange basso (reduce degli Acid Bath e occasionalmente nei Down) e Jimmy Bower alla batteria. Nessuno di questi vuole emergere dalla pastoia generale, e infatti tutto è appianato nella palude esistenziale del disco, ma la maggiore professionalità guadagnata negli anni, permette composizioni più esaustive e meno parziali.
Scattered Pieces Lay è una sintesi del nuovo metal di fine anni 90 e un monito di quello che sarà nel millennio a venire, un discorso che attozzisce (in un primo momento), e poi esalta misticamente (in un secondo momento) i Pantera, rigonfia (in passaggi semplici ma evocativi) la vecchia scuola dell'hardcore scomodando dei riffs da finimondo (quella che oggi è ben più di una tendenza, ma uno stile consolidato), un groove inizialmente instabile nella sua possenza (avanza nichilisticamente distruggendo e ricostruendo), che poi si disgrega in un decadimento melodico che libera energia e pathos nell'intenso finale del brano, una sintesi delle istanze più estreme e pericolose dell'alchimia dei Crowbar e delle loro tendenze più morbide ed immaginifiche.
Planets Collide, capolavoro assoluto, è la più nera e malinconica tra le litanie paludose dei Crowbar, che se in passato erano dei guerrieri sanguinari, ora sono come il Dio della guerra di Diego Velázquez, dove Marte appare con i muscoli distesi, molli, ripiegato su se stesso, mentre si riposa e si distende, stanco, dopo la prova di forza, simbolo di libido ma anche di saggezza, in una coincidenza degli opposti che è pure presente nei Crowbar, che uniscono la fisicità estrema al pensiero e al sentimento, uniscono il terreno con l'ultraterreno, la banalità e la grettezza della forza impetuosa alla raffinatezza del pensiero che va oltre. Così come Velázquez voleva liberare l'uomo del suo tempo dall'aggressività, del personalismo e dal maschilismo, togliendo la corazza al Dio della guerra, e raffigurandolo in un momento di stasi riflessiva, allo stesso modo i Crowbar tolgono alla musica heavy prima l'armatura del solipsismo virtuosistico e poi appianano le asprezze della loro monolitica mistura, in una dolce agonia più vicina al blues in senso letterale, che al metal.
Il brano trascina lentamente, nella sua calda rotondità, consona ai Kyuss, piena di amara melodia; l'unica differenza che passa in questo pezzo tra Kyuss e Crowbar è che mentre i primi il deserto lo vedono in superficie, i secondi lo penetrano come se volessero spingersi sotto la sabbia, non alla ricerca del petrolio, ma alla ricerca di una spiritualità perduta, che si può trovare solo attraverso la sofferenza, la nuda, terrena e sporca sofferenza. I Kyuss trovavano dinamismo nella dilatazione pachidermica di una "Thumb" mentre, al contrario, i Crowbar dilatano un dinamismo solo apparente, e qualsiasi tentativo del volo viene ricollegato al terreno, bloccato, spezzato e condannato ad un movimento circolare, senza prospettive.

Swollen eyes that bleed for you
Cold steel bars I'm watching thru
You've been baptized in a lake of tears
Crucified yourself with your own fears

December's Spawn è come camminare su una distesa di sabbia,ma con in vento in direzione opposta, e il risultato è qualcosa di estremamente faticoso, come faticoso è addentrarsi nel pezzo superando l'intro, irto di feedback controllati con una rigida disciplina. Il pezzo procede lentamente, si prosciuga piano piano come un fiume in secca, e in questo consumarsi cela il suo mistero, e il fascino di una musica che dietro la feroce baraonda nasconde sensazioni imprevedibili e fuori dai canoni del rock intransigente, e le si trova nei fiati di voce latenti, nelle urla spezzate, nella ripetitività e nella intensa bassezza dei suoni, che più bassi e non li si più immaginare.

Gone from heaven to hell
And it's oh so cold
Raining darkness and pain

Odd Fellows Rest rappresenta poi un episodio isolato, un lento mistico, nettamente fuori dall'ipertrofico rock del resto del disco, fuori dal muro di distorsioni totalizzanti, fuori da tutto il resto, e ciò che resta è la più fumosa e cupa delle ballate psichedeliche che tutta la scena abbia saputo offrire. Serpeggiano nei sotterranei, le pulsioni del basso, sospingono avanti l'anelito fino a disperderlo in una nebulosa acustica avvolgente dai contorni sempre più indefiniti, sempre più diretti al superamento dei confini dell'orrore del mondo. Ma il superamento non si ha nella separazione della raffinatezza acustica dalle pulsioni più luride e sorde al sentimento, ma attraverso la sintesi tra forza bruta e tensione al trascendente, che praticamente si realizza nel solo finale della brutale On Frozen Ground, che con la sua semplicità chiude l'album alzandosi al cielo come il pensiero e le mani di Dafne, condannata alla metamorfosi nell'immobilità della pianta.

See through all your lies
Your pathetic cries
Suicide lack of pride
Dig your grave for you
Despise all you do

Il Marte desnudo, così molle e delicato codifica gli istinti in amore, e le pulsioni diventano coscienza, in una operazione che umanizza quanto disumanizzato dalle guerre, o in questo caso dal nichilismo estremo di una musica che troppo spesso aveva premuto troppo il piede sull'accelerazione. Un nuovo corso si apre ai Crowbar e alla musica che verrà, e questo è il primo passo verso pensiero inedito dove gli opposti coincidono e dove le barriere ghettizzanti vengono gradualmente abolite.

John

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